Quando si celebrerà, fra un anno e mezzo, il 150° anniversario dell’Unità, non potremo fare a meno di constatare la fragilità e la vulnerabilità di un panorama politico che fin da oggi si presenta purtroppo scisso, segnato più dalla disunione e che dall’unione nazionale. L’annosa «questione meridionale», acuitasi in questi giorni, graverà probabilmente a ridosso delle celebrazioni come il grande problema rimasto irrisolto (e perdipiù complicato dalla «questione romana») dopo la breccia piemontese di Porta Pia. La fiacchezza del consenso patriottico e storico all’anniversario, la quasi ostile indifferenza alla pericolante eredità unitaria, il «vuoto di idee» opportunamente lamentato dall’articolo di Ernesto Galli della Loggia che ha aperto un ampio dibattito sul passato e il presente dello Stato italiano, mettono radici nella faglia anche psicologica e perfino antropologica che la crisi in atto tra Sud e Nord pone ai gruppi dirigenti del Paese.
I molti silenzi e balbettii sull’anniversario originano da qui. Dalla non facile soluzione di un enigma, come quello del Mezzogiorno, mai compiutamente risolto, anzi esacerbato nelle sue oscurità dall’insorgenza protestataria di una contrapposta «questione settentrionale» che, tramite i megafoni di Bossi, esige più giustizia fiscale, più autogoverno, più autonomia amministrativa da Roma. Al lamento patriottico di Galli della Loggia, replica un uomo di sinistra pragmatica e molto nordica come Massimo Cacciari: «Commemorare l’Unità d’Italia? Meglio usare soldi per fare altro. Una festa per festeggiare in astratto l’unità nazionale è quanto di più inutile e retorico si possa immaginare. È giunto il momento d’imboccare una strada federalista». I concetti, come si vede, non sono molto lontani da quelli di Bossi. Per quanto riguarda il Sud, dove sarebbe in corso «una lotta per la sopravvivenza», il sindaco di Venezia sembra ispirarsi alle parole già pronunciate da Alberto Ronchey nei taglienti aforismi di Fin di secolo in fax minore: «Prima la mafia e la camorra potevano reclutare manovalanza e prosperare perché nel Mezzogiorno l’industria non c’era, oggi l’industria non c’è perché ricattata o taglieggiabile da mafia e camorra».
Come riuscirà Berlusconi, su un simile sfondo, a onorare decentemente il duplice e contraddittorio patto che aveva stretto, prima delle elezioni, con la Padania di Bossi e la Sicilia di Lombardo? Riuscirà davvero, nel momento in cui la recessione obbliga Tremonti a stringere i cordoni della borsa, a evitare il parto, per ora soltanto rinviato, di una Lega milazzista e movimentista del Sud opposta a una Lega ormai consolidata e sempre più influente ed egemone nel Nord? Insomma, Berlusconi arriverà al 2011 con un’eredità risorgimentale ricucita alla meno peggio o pericolosamente lacerata? Tutti, maggioranza incrinata e opposizione larvale, sudisti piagnoni e nordisti arroganti, in questi mesi di dibattito, di polemica, di pallida vigilia risorgimentalista, dovrebbero forse rileggere un temibile monito di Gregorovius: «Così com’era, l’Italia non poteva restare. Così com’è, non resterà. Così come dovrebbe essere, purtroppo, non diverrà». Era il 1860: anno d’attesa positiva per gli unitaristi dell’epoca, e negativa per quelli che la pensavano come il titanico e pessimistico storico tedesco.
Erano comunque, già allora, tempi difficili, problematici, travagliati, anche per uomini di grande erudizione e grandissimo fervore risorgimentale come un Niccolò Tommaseo. Il dalmata, che si riconosceva italiano nella cultura e slavo nel sangue, era stato al fianco di Daniele Manin, ch’egli detestava, durante i due anni dell’assedio austriaco di Venezia (1848-49). Era l’ideologo e, di fatto, il ministro degli Esteri della ribelle Repubblica di San Marco la quale aveva messo in scena una drammatica prova generale dei successivi moti del Risorgimento. Tommaseo fu contrario fino all’ultimo alla resa agli austriaci; tuttavia dissentì violentemente da Manin quando questi propugnò e riuscì a far proclamare l’annessione di Venezia al Piemonte. Non solo massimo filologo e lessicografo della lingua italiana, ma autore di una monumentale storia dell’Italia in cinque volumi, suo testamento civile e politico, il Tommaseo però non approvava la strategia unitarista di Cavour e, a mezza strada tra Mazzini e Gioberti, si dichiarava cristiano, repubblicano e federalista; cattolicissimo, perfino nelle cadute e nei rimorsi carnali, gli ripugnava il potere temporale della Chiesa e asseriva che «il destino d’Italia è purtroppo in mano ai preti». Provava un’irriducibile avversione per gli «avvocaticchi» che si erigevano, ignorando le masse, a protagonisti di prima fila dell’impresa risorgimentale. Amava l’Italia, come faro di civiltà e depositaria di un patrimonio universale, ma diffidava dei singoli italiani ritenendoli incapaci di costruire un’entità nazionale su scala europea. Dal nuovo regno italiano rifiutò ogni onore, anche quello di un seggio in senato, per conservare intatto e libero l’uso di una parola che gli usciva spesso velenosa e maldicente di bocca. Nelle opere, nelle passioni politiche, nei malumori, nelle viscerali contraddizioni del Tommaseo si riflettevano, in gran parte, le rose e le spine che l’idea dell’Unità italiana ha continuato a trascinare con sé dall’eroica rivolta antiaustriaca di Venezia fino a oggi. Ricordate il verso dolente degli assediati veneziani? «Il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca». Dovremo forse, assediati da noi stessi, ripeterlo ancora?
La Stampa, 02.08.09