Il miserabile spettacolo del decreto anti-crisi è un misto tra il teatro di Ionesco e l’opera dei pupi. C’è l’assurdo: il governo impone con una mano la conversione di un primo “provvedimento urgente” infarcito di errori ed orrori, con l’altra ne presenta un secondo che riscrive quello appena approvato. C’è la farsa siciliana: il Parlamento svilito nella quinta di un’opera buffa, dove gli eletti del popolo, povere marionette, si scambiano legnate fragorose ma inutili.
Il decreto anti-crisi è discutibile nel merito. L’ennesimo patchwork di ben 25 articoli scombinati e incorenti, l’ennesimo pacchetto di oltre 100 commi di norme palesemente “tossiche” insaccate insieme a norme apparentemente virtuose: come i “titoli salsiccia” che hanno fatto crollare i mercati finanziari mondiali. Da una parte qualche piccola pietra per arginare l’onda d’urto della crisi recessiva: dagli aiuti fiscali per le imprese che ripatrimonializzano alla detassazione degli utili reinvestiti in nuovi macchinari, dal “premio di occupazione” per le aziende che non licenziano all’aumento delle dotazioni infrastrutturali. Ma dall’altra parte una pioggia di interventi che, con la strategia di contrasto alla crisi, non hanno proprio nulla a che vedere: dalla modifica degli automatismi per chi andrà in pensione dopo il 2015 alla tassazione delle riserve auree della Banca d’Italia. In mezzo, un’altra insopportabile legge-bavaglio, stavolta ai danni della Corte dei conti, e una raffica indecente di condoni, dallo scudo fiscale per il rimpatrio dei capitali alla sanatoria per le multe automobilistiche. Sarà anche vero che “il Paese non è in declino”, come sostiene Giulio Tremonti: ma se la “exit strategy” dal “declinismo” passa attraverso questa accozzaglia di buone intenzioni e di pessime diversioni non c’è da essere così ottimisti.
Ma il decreto anti-crisi è soprattutto intollerabile nel metodo. Le numerose nefandezze che contiene sono state veicolate con la solita prassi del maxi-emendamento, propinato all’ultimo minuto ad un’assemblea ridotta a muto votificio e imposto all’aula sorda e grigia con il diktat dell’ennesimo voto di fiducia. Il ventitreesimo in poco più di un anno: un record assoluto, per un governo che gode della maggioranza più solida della storia repubblicana. Ma proprio questa attitudine alla sottomissione sistematica del potere legislativo, ad esclusivo beneficio di quello esecutivo, è la cifra politica del berlusconismo come forma tecnica del moderno totalitarismo. Come si può imporre al Senato di approvare un decreto, quando lo stesso presidente del Consiglio avverte che la Camera poi lo modificherà radicalmente? Per fortuna, combinando insensatezze di merito e scorrettezze di metodo, il presidente della Repubblica si è impuntato, e ha spiegato al governo che questa formula non può contare sull’avallo del Quirinale. Ma la toppa, a questo punto, rischia di diventare peggiore del buco. Come si può annunciare adesso “un decreto che corregge il decreto”? Dove finiscono, in questo surreale cortocircuito, il primato del Parlamento e la dialettica tra le istituzioni? Quale torsione costituzionale è mai questa, in uno Stato che ha ancora la pretesa di definirsi “di diritto”?
Più che “Stato di diritto”, questo è ormai uno schmittiano “Stato di eccezione”. Dove la sospensione dell’ordine giuridico per volontà del sovrano, da misura provvisoria e straordinaria imposta da uno stato di necessità, sta diventando un normale “paradigma di governo”. Dettato ora da un’urgenza personale del governante: evitare condanne nei processi, com’è il caso del lodo Alfano. Ora da un’urgenza politica della rissosa maggioranza che lo sostiene: evitare defaillances nel voto parlamentare o rinvii delle vacanze estive, come nel caso del decreto anti-crisi, che a questo punto si trasforma in decreto salva-destra (perché riequilibra le tensioni sempre più destabilizzanti tra Lega e Pdl e tra Pdl del Nord e Pdl del Sud) e in decreto salva-ferie (perché scongiura una proroga agostana dei lavori delle Camere).
In tutti i casi, questo “Stato di eccezione” tende ormai a confondersi o a coincidere con la regola. Quando questo succede, gli equilibri costituzionali si alterano. E la democrazia, fatalmente, ne soffre. Fino a snaturare se stessa.
La Repubblica, 30 luglio 2009
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