Probabilmente non siamo alla vigilia della crisi del centrodestra. Ma certo sta entrando in tensione «un» centrodestra: quello che riusciva a tenere insieme tutto. In apparenza sembra la metafora della coperta troppo corta, o di un’Italia troppo lunga per accontentare ogni sua porzione. Ma gli interessi sono sempre stati contrastanti.
La vera novità è che il governo di Silvio Berlusconi non si mostra più in grado di conciliarli come ha fatto in passato. L’ipoteca della Lega nord sulla maggioranza sta assumendo un peso schiacciante. L’ipotesi di un ritiro italiano dall’Afghanistan, la polemica contro il Pd, gli esami di dialetto per gli insegnanti sono pezzi della stessa strategia. Anzi, suonano come anticipi della campagna elettorale per le regionali del 2010. Si tratta di un braccio di ferro a tavolino con gli alleati del Pdl, prima che col centrosinistra. Ed ha come trofeo le presidenze di Veneto, o Lombardia, o di entrambe.
Il partito di Umberto Bossi osserva con freddezza le difficoltà berlusconiane; e ne trae le conseguenze. La sua spregiudicatezza è simmetrica a quella dei teorici del «partito del Sud», che hanno costretto palazzo Chigi a scendere a patti; e additato polemicamente l’«asse del Nord» fra Lega e ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il risultato, per il momento, sono la paralisi decisionale ed un’immagine deprimente della maggioranza.
In parte, probabilmente, è una spia della crisi di leadership di Berlusconi, della quale le vicende private sono il sintomo più che la causa. È bastato che il premier garantisse soldi alla Sicilia, perché il Carroccio riaprisse quasi di rimbalzo una serie di fronti conflittuali «padani»; ed il premier non ha saputo fare argine. Ma in questa difficoltà personale si intravedono implicazioni più di fondo: un cambio di fase, e la conferma che la vera insidia per la maggioranza viene dalla crisi economica. Nel momento in cui gli spazi di mediazione ed i finanziamenti si inaridiscono, rischia di scheggiarsi il blocco sociale che ha rispedito Berlusconi a palazzo Chigi nel 2008. È come se di colpo fosse saltato l’armistizio nazionale stipulato appena un anno fa tra leghismo nordista ed autonomismo siciliano all’ombra del Cavaliere. Al suo posto rimangono le rivendicazioni corporative e territoriali; e di riflesso una difficoltà crescente a legiferare. Si indovina una sorta di «si salvi chi può» che in realtà promette solo di mandare un po’ più a fondo il Paese, e soprattutto le sue aree più deboli. E in questo scenario inquietante, la Lega è decisa a far valere il suo potere contrattuale. Non vuole perdere il controllo dell’agenda governativa. Ed è intenzionata a monetizzare politicamente un ruolo crescente, consacrato dal voto europeo di giugno.
Le conseguenze sono paradossali e assai poco incoraggianti. Un’Italia che ritiene, magari con qualche ragione, di potere affrontare la crisi meglio di altri Paesi, mostra il volto della precarietà: nonostante i numeri parlamentari mettano in teoria la coalizione al riparo da qualunque pericolo. Ma, paradosso nel paradosso, un modello di centrodestra entra in crisi anche perché non ha avversari in grado di proporsi come alternativa: non per ora, almeno. Così, riemergono gli istinti di una Lega «di lotta e di governo», come è stato detto; e simmetricamente di una Sicilia conquistata e dominata dal Pdl, ma pronta ad andare all’opposizione di palazzo Chigi per avere più soldi. C’è da chiedersi chi possa fermare questo inizio di deriva, e come. Per ora, l’impressione è che prevalgano quelli che la vogliono non bloccare ma sfruttare per i propri calcoli di potere. Si indovina una convergenza oggettiva fra le pulsioni localiste, quasi isolazioniste di pezzi di nord e di sud per regolare i conti con «Roma»; per svuotarne stavolta dall’interno la legittimità di luogo del governo e dell’unità nazionale, per quanto contestati. Si tratta di una manovra in incubazione, della quale è bene essere consapevoli
Il Corriere della Sera, 29 luglio 2009