cultura

“Dov’è finita l’Italia civile?”, di Vittorio Emiliani

Il governo Berlusconi fa calare il sipario sullo spettacolo italiano, su quello più colto, che non può vivere di solo mercato. Bocciando l’emendamento del Pd (De Biasi, Franceschini, Ghizzoni, Melandri e altri), ha bocciato pure la reintegrazione nel Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) dei 200 milioni tagliati da Tremonti. Respinto pure l’emendamento Carlucci-Barbareschi (PdL) che limitava quella reintegrazione a 100 milioni. Così il centrodestra assesta un colpo mortale allo spettacolo dal vivo. Crolliamo nella spesa statale allo 0,1 % del Pil. Ultimi in Europa e gli unici ad essere così miopi da tagliare le spese per cultura e per la ricerca anziché accrescerle. Come hanno fatto gli Usa di Obama e, in Europa, governi di segno opposto: la destra di Sarkozy e la sinistra di Zapatero. Spendevamo poco, adesso siamo alla miseria.
Sono giornate nere per il mondo dello spettacolo, nel quale monta un grande, inascoltato allarme. Sono in pericolo 250.000 posti di lavoro, senza contare un vasto indotto artigianale. Sono a rischio-chiusura decine e decine di imprese del cinema, del teatro, della musica, della danza, del circo. Le quali, coi beni culturali, compongono l’identità storica e moderna del nostro Paese. Teniamoci all’economia: queste imprese concorrono al Pil per una quota pari o superiore, insieme al turismo (che esse arricchiscono), a quella dell’edilizia. Per questa però governo e altre istituzioni si sbracciano a non finire. Per cultura e spettacolo, invece non fanno una piega. Assistono impassibili al naufragio. Si agevola la speculazione immobiliare, non la cultura. E il ministro Bondi? Promette e poi subisce. Una sorta di commissario liquidatore all’interno di un governo-becchino. Adesso Carlucci e Barbareschi dicono di voler chiedere udienza a Napolitano. Già i 100 milioni del loro emendamento erano poca cosa. L’udienza, per non fare soltanto scena, la chiedano a Berlusconi e a Tremonti. Anche i Comuni – che negli anni passati hanno investito in cultura e spettacolo – sono a corto di fondi. Mentre le Regioni più ricche del Nord – dove conta la Lega, nemica giurata del FUS – vorrebbero «regionalizzare», insensatamente, la Scala, la Fenice o il Piccolo di Milano.
Paradosso dei paradossi: dal 1990 al 2007 – calcola Marco Causi, deputato-economista del PD – la spesa del pubblico pagante è aumentata del 200 % (senza jazz e musica leggera). Per cui, se nel ’90, per 1 euro di sovvenzione pubblica (FUS essenzialmente), i gestori incassavano dai biglietti 42 centesimi, nel 2007 hanno incassato 1,12 euro (con gli sponsor privati, 1,74). In più lo spettacolo versa fior di tasse. Gli spettatori dei teatri (cresciuti di 6,5 punti percentuali) hanno battuto, pure nella spesa, quelli degli stadi. Ma il mondo del teatro “pesa” cento volte meno, in termini politici, di quello della pedata. E il cinema, che ci dà nuove soddisfazioni, riceve dallo Stato otto volte meno di quello francese. Verso quale abisso di incultura, di ignoranza di massa vogliamo precipitare? Eppure si protesta ancora poco, con troppo garbo. Ci si indigna in pochi, anche a sinistra. Dove si è nascosta l’Italia più civile?

L’Unità, 17 luglio 2009

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