La scuola italiana guarda più verso il basso che verso l’alto e così spreca i talenti. «Trascurare le eccellenze dal punto di vista sociale è grave quanto favorire gli abbandoni», Luisa Ribolzi, ordinaria di Sociologia dell’educazione all’università di Genova, pensa a una scuola che risponda alle esigenze di tutti gli studenti, di quelli che corrono e di quelli che arrancano. E non sarebbe nemmeno così difficile, «basterebbe – propone – dedicare una parte dell’orario flessibile a chi eccelle: oltre all’attività di recupero per i più deboli si dovrebbe prevedere anche l’approfondimento di alcune materie per i migliori». Ovvio che quanti faticano ad arrivare alla sufficienza sono molti di più di quelli che collezionano dieci, non per questo però i ”geni” vanno dimenticati. Duecento ogni anno gli studenti italiani d’eccellenza contro i 20mila francesi, scrive sul ”Messaggero” Claudio Gentili, direttore Education di Confindustria, citando un’indagine Crui.
In effetti in media non sono tanti i ragazzi del nostro paese che si classificano nelle competizioni internazionali delle varie discipline, ma «una o più medaglie d’oro alle Olimpiadi di Matematica arriva ogni anno, il che vuol dire piazzarsi tra i primi dieci o quindici al mondo», spiega il professor Luciano Modica, ordinario di Matematica, ex sottosegretario all’Università e alla ricerca nel governo Prodi e già presidente della Conferenza dei rettori.
«Tra gli studenti italiani ci sono ragazzi eccezionalmente dotati, a livelli altissimi il nostro paese non sfigura. Il problema è che a livelli medio alti e medi siamo malmessi, soprattutto nelle competenze matematiche e scientifiche», aggiunge il professore. «Il che si spiega anche con la disabitudine dei nostri allievi ad affrontare test e competizione».
Non si può immaginare di mettere insieme i migliori, «no alle classi acquario, sono diseducative. Però è indubbiamente vero che la scuola italiana ha finito per trascurare i migliori. Ed è un grande peccato: i talenti non riconosciuti – sostiene Modica – alla fine si perdono perché il talento si nutre di lavoro, stimoli e interesse». Un cattivo insegnante fa perdere la passione per una materia, «ma sono convinto che tra i docenti siano molto più numerosi i talent scout che i talent killer», quelli che promuovono le eccellenze piuttosto di quanti le ignorano.
A volte sono gli stessi ragazzi a nascondere la propria genialità nel timore di essere emarginati. «Un fenomeno diffuso negli Stati Uniti, lo definiscono ”acting white”, ne ha parlato anche Obama», per Luisa Ribolzi sta crescendo anche in Italia. ”Comportarsi da bianco”, dunque essere bravo a scuola, è un’offesa tra gli studenti di colore, «equivale a rifiutare il gruppo. Tra gli adolescenti l’approvazione degli amici è più importante di quella dei professori».
Se i «bravi sono frenati», per Ethel Serravalle, sottosegretario all’Istruzione nel ’95 e studiosa di didattica, «è perché nelle classi ci sono tanti che sono stati più volte graziati. La scuola italiana ha la propensione a mandare comunque avanti gli studenti». E questo è «il principale dei problemi: quando si avrà la garanzia che i ragazzi concludono un ciclo con le competenze necessarie, allora e solo allora si potrà cominciare a fare un discorso sulle differenti velocità degli alunni». E dunque pensare a percorsi individuali «con l’obiettivo di far raggiungere a ciascuno il livello più alto a cui può arrivare». Servono insegnanti preparati a questo, «e bisognerebbe verificare quali sono i docenti in grado di insegnare agli altri queste particolari metodologie», e attraverso test di valutazione «individuare le realtà migliori. Ma da troppo tempo niente nella scuola viene verificato, da 40 anni andiamo avanti a naso».
Il Messaggero, 6 luglio 2009