Caro direttore,
nel 1969 la Corte Costituzionale italiana spiegò con queste parole perché riteneva giusto che le donne andassero in pensione prima degli uomini: «Rientra fra i poteri del legislatore anche quello di limitare nel tempo il periodo in cui la donna venga distratta dalle cure familiari e di consentire che, giunta ad una certa età, essa torni ad accudire esclusivamente la famiglia».
Una sentenza del novembre scorso della Corte di Giustizia europea ha condannato invece l’Italia a rimuovere questa differenza di trattamento, almeno nel settore dell’impiego pubblico. E, poiché l’Italia non se ne è data per intesa, ora la Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione, che potrebbe costarci molto cara se non ci affretteremo a ottemperare.
Molti ancora oggi, a destra come a sinistra, non si rassegnano a questo obbligo comunitario; ma le parole della Corte Costituzionale di quaranta anni fa oggi sbalorditive, eppure limpidissime nel chiarire la vera logica della differenziazione sopravvissuta fino a oggi dovrebbero indurci a parificare al più presto i limiti di età per la pensione anche nel settore privato. È indispensabile per rompere il circolo vizioso della discriminazione che alimenta se stessa: «Poiché tu donna hai sopportato una parte maggiore del lavoro informale di cura familiare, in cambio ti mandiamo in pensione prima; poiché ti mandiamo in pensione prima, non lamentarti se ti riserviamo più il lavoro domestico che il lavoro professionale». Accade così che, a parità di popolazione con la Gran Bretagna, in Italia ci siano 4 milioni di donne in meno nel mercato del lavoro.
Resta l’obiezione: le donne perdono il «risarcimento» della possibilità di pensione anticipata, ma la discriminazione ai loro danni, in azienda come in casa, resta quella di prima. È vero. E questo è il motivo per cui tutte le risorse che si risparmiano con la parificazione graduale delle età pensionistiche, ma anche molte di più, dovranno essere «restituite» alle donne, con misure vigorose di promozione della parità effettiva. In questo spirito è stata presentata recentemente da tre donne che conoscono bene il problema, Marina Piazza, Anna Maria Ponzellini e Anna Soru, una proposta interessante: scambiare l’innalzamento dell’età pensionabile con il riconoscimento ai fini previdenziali dei periodi dedicati alla cura familiare. Come? Per esempio, estendendo la tutela per la maternità (compresa la contribuzione figurativa) a tutte le madri, anche se non impegnate in un rapporto di lavoro; ma anche assicurando a ogni coppia di genitori dei congrui periodi di congedo (con contribuzione figurativa e indennità pari al 60% della retribuzione), ulteriori rispetto a quelli già oggi disponibili e proporzionati al numero dei figli.
Il problema è che dei congedi parentali godono molto di più le donne degli uomini, anche perché le mogli guadagnano mediamente meno dei rispettivi mariti: è più conveniente, quindi, che in famiglia il reddito di lavoro parzialmente sacrificato sia quello femminile. Si corre così di nuovo il rischio che l’incremento della protezione alimenti il circolo vizioso a danno del tasso di occupazione femminile, oggi in Italia innaturalmente basso.
Un modo per uscirne è questo: una detassazione selettiva dei redditi di lavoro femminile, come «azione positiva» finalizzata a produrre quell’aumento drastico dell’occupazione regolare delle donne che l’Unione Europea ci chiede e finora non siamo stati capaci di realizzare. Oggi su uno stipendio mensile di mille euro gravano 110 euro di imposta. Ridurre quei 110 euro a 10 per le retribuzioni delle donne costerebbe allo Stato circa 4 miliardi l’anno: è, lira più lira meno, quello che è costata l’abolizione dell’Ici sulle case dei più ricchi, disposta dal governo all’inizio di questa legislatura. In parte, comunque, questa misura si ripagherebbe da sola, per effetto dell’allargamento della base produttiva: domanda e offerta di lavoro femminile sono infatti molto più elastiche rispetto al lavoro maschile, quindi risponderebbero bene all’incentivo. E quando in famiglia ci sarà un reddito tassato di più e uno tassato di meno, sarà più facile che a essere sacrificato parzialmente con la richiesta di congedo parentale sia quello tassato di più. Per la copertura finanziaria di questa misura fiscale basterebbe il 5 per cento dei 70 miliardi che lo Stato spende ogni anno per l’equilibrio del bilancio pensionistico. Ne varrebbe davvero la pena.
In un convegno svoltosi nei giorni scorsi a Milano il deputato della maggioranza Giuliano Cazzola si è detto disponibile per un’iniziativa di questo genere. Se anche i ministri Tremonti e Sacconi lo fossero, una iniziativa bipartisan di questo genere potrebbe, nel giro di pochi anni, cambiare faccia al mercato del lavoro italiano.
Pietro Ichino
(Senatore del Pd)
Il Corriere dellla Sera, 03 luglio 2009
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