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“Donne più tardi in pensione”, di Pietro Ichino

Caro direttore,
nel 1969 la Corte Costituzionale italia­na spiegò con queste parole per­ché riteneva giusto che le don­ne andassero in pensione prima degli uomini: «Rientra fra i pote­ri del legislatore anche quello di limitare nel tempo il periodo in cui la donna venga distratta dal­le cure familiari e di consentire che, giunta ad una certa età, es­sa torni ad accudire esclusiva­mente la famiglia».

Una sentenza del novembre scorso del­la Corte di Giustizia europea ha condan­nato invece l’Italia a rimuovere questa dif­ferenza di trattamento, almeno nel setto­re dell’impiego pubblico. E, poiché l’Ita­lia non se ne è data per intesa, ora la Commissione europea ha aperto una pro­cedura di infrazione, che potrebbe co­starci molto cara se non ci affretteremo a ottemperare.

Molti ancora oggi, a destra come a sini­stra, non si rassegnano a questo obbligo comunitario; ma le parole della Corte Co­stituzionale di quaranta anni fa oggi sba­lorditive, eppure limpidissime nel chiari­re la vera logica della differenziazione so­pravvissuta fino a oggi dovrebbero indur­ci a parificare al più presto i limiti di età per la pensione anche nel settore priva­to. È indispensabile per rompere il circo­lo vizioso della discriminazione che ali­menta se stessa: «Poiché tu donna hai sopportato una parte maggiore del lavo­ro informale di cura familiare, in cambio ti mandiamo in pensione prima; poiché ti mandiamo in pensione prima, non la­mentarti se ti riserviamo più il lavoro do­mestico che il lavoro professionale». Ac­cade così che, a parità di popolazione con la Gran Bretagna, in Italia ci siano 4 milioni di donne in meno nel mercato del lavoro.

Resta l’obiezione: le donne perdono il «risarcimento» della possibilità di pen­sione anticipata, ma la discriminazione ai loro danni, in azienda come in casa, re­sta quella di prima. È vero. E questo è il motivo per cui tutte le risorse che si ri­sparmiano con la parificazione graduale delle età pensionistiche, ma anche molte di più, dovranno essere «restituite» alle donne, con misure vigorose di promozio­ne della parità effettiva. In questo spirito è stata presentata recentemente da tre donne che conoscono bene il problema, Marina Piazza, Anna Maria Ponzellini e Anna Soru, una proposta interessante: scambiare l’innalzamento dell’età pensio­nabile con il riconoscimento ai fini previ­denziali dei periodi dedicati alla cura fa­miliare. Come? Per esempio, estendendo la tutela per la maternità (compresa la contribuzione figurativa) a tutte le madri, anche se non impegnate in un rapporto di lavoro; ma anche assicurando a ogni coppia di genitori dei congrui periodi di congedo (con contribuzione figurativa e indennità pari al 60% della retribuzione), ulteriori rispetto a quelli già oggi disponi­bili e proporzionati al numero dei figli.

Il problema è che dei congedi parenta­li godono molto di più le donne degli uo­mini, anche perché le mogli guadagnano mediamente meno dei rispettivi mariti: è più conveniente, quindi, che in fami­glia il reddito di lavoro parzialmente sa­crificato sia quello femminile. Si corre co­sì di nuovo il rischio che l’incremento della protezione alimenti il circolo vizio­so a danno del tasso di occupazione fem­minile, oggi in Italia innaturalmente bas­so.

Un modo per uscirne è questo: una de­tassazione selettiva dei redditi di lavoro femminile, come «azione positiva» fina­lizzata a produrre quell’aumento drastico dell’occupazione regolare delle donne che l’Unione Europea ci chiede e finora non siamo stati capaci di realizzare. Oggi su uno stipendio mensile di mille euro gravano 110 euro di imposta. Ridurre quei 110 euro a 10 per le retribuzioni delle don­ne costerebbe allo Stato circa 4 miliardi l’anno: è, lira più lira meno, quello che è costata l’abolizione dell’Ici sulle case dei più ricchi, disposta dal governo all’inizio di questa legislatura. In parte, comunque, questa misura si ripaghe­rebbe da sola, per effetto dell’allargamento della ba­se produttiva: domanda e offerta di lavoro femmini­le sono infatti molto più elastiche rispetto al lavo­ro maschile, quindi ri­sponderebbero bene al­l’incentivo. E quando in fa­miglia ci sarà un reddito tassato di più e uno tassa­to di meno, sarà più facile che a essere sacrificato parzialmente con la richie­sta di congedo parentale sia quello tassato di più. Per la copertura finanzia­ria di questa misura fisca­le basterebbe il 5 per cento dei 70 miliar­di che lo Stato spende ogni anno per l’equilibrio del bilancio pensionistico. Ne varrebbe davvero la pena.

In un convegno svoltosi nei giorni scorsi a Milano il deputato della maggio­ranza Giuliano Cazzola si è detto disponi­bile per un’iniziativa di questo genere. Se anche i ministri Tremonti e Sacconi lo fossero, una iniziativa bipartisan di que­sto genere potrebbe, nel giro di pochi an­ni, cambiare faccia al mercato del lavoro italiano.

Pietro Ichino
(Senatore del Pd)
Il Corriere dellla Sera, 03 luglio 2009

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