Fassino: io, ultimo leader dei DS, celgo la contaminazione.
«Per me Franceschini è più adatto a fare il segretario del Pd. Senza togliere nulla a Bersani che stimo e con cui ho lavorato per anni. È una precisazione doverosa perché guai se il congresso diventa un referendum tra due persone. Le scelte devono essere motivate politicamente, in modo che quell’ appuntamento non si risolva solo in una conta».
Perché sceglie Franceschini?
«Dario ha dato alcune risposte forti in questi mesi. Ha tenuto la barra dritta sulla laicità, idem sulla collocazione europea del Pd, ha manifestato in modo chiaro la necessità di un partito strutturato affidando la macchina organizzativa a uomini che non hanno niente a che vedere con il nuovismo. E prima che arrivassero le veline a cancellare tutto, ha fatto una campagna elettorale di contenuti. Ma il mio sostegno non è acritico, né incondizionato. Penso che il congresso debba affrontare due nodi: l’ Italia e il voto di giugno. Siamo in un Paese che da 20 anni non cresce o lo fa meno degli altri. E quando la società diventa piccola aumentano le fobie. La destra vince perchè la paura tende a rifugiarsi da quella parte. Perciò il tema che ha di fronte il Partito democratico è rimettere in moto il Paese e liberarlo dalle paure».
E il voto di queste settimane?
«Parla chiaro: il Pdl non sfonda ed è ben lontano dal 45% evocato da Berlusconi però cresce la Lega che penetra nelle regioni rosse. Grazie a questa ascesa l’ alleanza di destra continua a mantenere un consenso radicato. Viceversa il Pd riesce a non farsi travolgere ma non si può negare lo smottamento elettorale. Continuiamo a perdere tra gli operai e nelle aree popolari, questo anche nelle zone nostre come Orvieto e Sassuolo. L’ appannamento di Berlusconi non si traduce in una crescita di credibilità del centrosinistra. Siamo in bilico, rischiamo di diventare un partito che su ogni tema raccoglie un consenso minoritario. Noi invece vogliamo parlare alla maggioranza del Paese».
Franceschini più di Bersani offre la soluzione?
«Credo di sì e comunque a Dario chiedo di dare un profilo di riformismo forte a un partito che scommetta sull’ innovazione e non sul nuovismo mediatico, che faccia i conti con una politica dell’ immigrazione di cui non debbano aver paura gli strati più poveri, che individui una terapia d’ urto per il debito pubblico, il nostro macigno più grande. Il segretario ha anche colto alcune letture del voto. Serve un partito strutturato, capace di formare gruppi dirigenti, non una serie di comitati elettorali. E un sistema bipolare ma non bipartitico se è vero che la somma di Pdl-Pd scende dal 70 al 60 per cento in un anno. Dunque occorre una legge elettorale che favorisca la formazione di alleanze».
Torniamo all’ armata Brancaleone paventata da Veltroni?
«L’ armata Brancaleone è improponibile, la geografia politica è già semplificata. Nel centrosinistra siamo passati da 14 a 3-4 partiti. Il voto dice però che sarebbe un’ avventura dopo essere passati da 39 partiti a 6 pretendere di passare da 6 a 2».
L’ ultimo segretario dei Ds si schiera con un ex democristiano quando dall’ altra parte ci sono Bersani, D’ Alema e tanta Quercia. Non è un controsenso?
«Proprio perché sono l’ ultimo leader dei Ds avverto la responsabilità di non tornare indietro dividendo il Pd nei due vecchi campi. Voglio andare avanti nel processo di contaminazione, di costruzione di un’ identità nuova. Nella candidatura di Bersani vedo il rischio di un ripiegamento identitario, soprattutto se scatta il meccanismo per cui venendo dai Ds tutti i Ds si sentono in dovere di sostenerlo. Dario poi ha spiegato che vuole scommettere sulla generazione futura. Lui stesso è in parte il rappresentate di qualcosa di nuovo perché è più giovane di molti di noi. Può essere l’ uomoponte tra due generazioni».
Il modello Serracchiani non le piace?
«Dico solo che ci sono molti giovani bravissimi che hanno seguito un percorso diverso. Nel voto amministrativo ad esempio segnalo il cammeo di Cuneo dove il Pd governa 6 delle 7 città della provincia. Quel successo non è nato dal cielo. E nemmeno su Youtube».
Raccontano: Fassino sostiene Franceschini perché gli ha promesso la presidenza del Pd.
«Non esiste un patto del genere. Le dico di più: sono contrario ad altre figure apicali in un partito che sceglie il suo leader con le primarie. Il presidente è inutile. Chi mette in giro queste voci dimostra la sua miseria umana e non ricorda la mia storia, fatta anche di rinunce che nessun altro dirigente avrebbe mai fatto».
Fassino, Marini e Veltroni. L’ alleanza che appoggia Franceschini non è troppo eterogenea?
«Entrambi i candidati avranno un largo sostegno. Bindi e Letta stanno con Bersani ma pensano cose opposte sull’ immigrazione, sulle politiche sociali, sui sindacati. Mettiamola così: la logica bipolare e non bipartitica vale anche nel nostro congresso».
Fassino alla fine si libera dell’ ombra di D’ Alema.
«Guardi che il nostro rapporto è sempre stato libero. E si fa un cattivo servizio al Pd rappresentando il congresso come la sfida tra D’ Alema e Veltroni. Sia l’ uno che l’ altro hanno dato molto e possono continuare a dare. Hanno anche ricevuto molto, spesso grazie a chi ha creato le condizioni perché potessero avere molto. Quello che gli elettori del Pd si aspettano da Veltroni e D’ Alema è che diano un contributo senza mettere il cappello sui candidati».
La Repubblica, 29 giugno 2009
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