Liberale, grande sociologo, europeista scettico. Sono queste le prime tre definizioni che vengono in mente per compendiare la personalità di Lord Ralf Dahrendorf, nato nel 1929 ad Amburgo e scomparso ieri a Colonia, dopo essere stato colpito in maggio da una grave malattia, come ha annunciato l’edizione on line della Badische Zeitung e confermato la casa editrice Laterza, che ha pubblicato in Italia tanti dei suoi libri. «Lord», perché dal 1983 aveva adottato la cittadinanza britannica, e nel 1993 la Regina Elisabetta lo aveva nominato tale, con il titolo di «Baron Dahrendorf of clare Market in the city of Westminster». Del resto dal 1974 al 1984 era stato direttore della prestigiosa London School of Economics, istituzione dapprincipio fabiana e protolaburista, ma via via tendenzialmente liberale e in ogni caso ineccepibilmente pluralista. E in quel ruolo si era profondamente radicato nel mondo culturale britannico in senso lato, oltre che nell’empireo dell’accademia inglese e cosmopolita. Vediamo allora quelle tre definizioni sommarie di Lord Ralf, con tutto quello quel che c’è dentro.
Liberale, certo, ma di tipo particolare. Tanto per cominciare era figlio di un deputato socialdemocratico a Weimar e fino al 1960 fu persino iscritto al partito socialista. Ad un congresso della Spd nel 1960, parlò tuttavia in modo inequivoco, e l’equivoco finì. E venne fuori che Dahrendorf proclamava la centralità delle libertà individuali, il conflittualismo diffidente dello stato, l’avversione alle grandi coalizioni. Insieme alla necessità di dar «sostanza» alle libertà, con politiche sociali in grado di potenziare le «chanches» individuali, contro «legamenti», ineguaglianze e privilegi. Messe così le cose fu Willy Brandt stesso a suggerirgli di abbandonare l’Spd (a cui era iscritto con pigrizia), pur ringraziandolo per l’importante contributo. E le racconta Dahrendorf stesso queste cose, non senza autoironia, in un bel libro con Vincenzo Ferrari, pubblicato per Laterza nel 1979 (Intervista sul liberalismo e l’Europa).
Dunque un liberale sui generis, progressista, favorevole anche alla cogestione degli operai nelle imprese, e autore nel 1969 delle Tesi di Friburgo, a base del Fdp che andò al governo con la Spd. Avercene avuti da noi di liberali così! Ma Dahrendorf, che aveva studiato filologia, filosofia e sociologia ad Amburgo, nonché a Londra tra il 1947 e il 1952, fu anche notevole sociologo, benché non amasse del tutto la definizione. «Troppo limitata e settoriale – diceva – preferisco quella di scienziato sociale». Perché? Semplice, perché il suo vero modello erano Max Weber e Talcott Parsons, anche se criticava il funzionalismo chiuso del secondo. Insomma si sentiva un teorico a tutto campo, imbevuto com’era di teoria politica, filosofia, storia della cultura, storia, economia, e scienze sociali in generale. E al centro della sua teoria c’era il «conflitto», chiave di volta delle sue idee. Tematizzato in un’opera importante, che era anche un tentativo di smontare Karl Marx partendo però da Marx: Classi e conflitto di classe nella società industriale (Laterza, 1970, prima edizione tedesca del 1957). Le classi? C’erano per Dahrendorf, come concetto e realtà. E però, mano a mano, si «sfrangiavano», divenivano «gruppi di interesse», in lotta per il potere e l’autorità. Per le risorse, e pure per il riconoscimento di «status». E via via che le classi si sfrangiavano – proprio a causa della lotta di classe degli inizi – emergevano gli individui e le loro lotte per emanciparsi dai «gruppi». Dinamica che al contempo favoriva la nascita di nuovi gruppi e nuove elites.
Era un elitista Daherndorf, infatti la sua democrazia coincideva col ricambio delle elites, come in Mosca, Pareto e Gobetti. visione ottimistica, che prescindeva dal fatto che l’economia capitalistica restava oligarchica e di tipo privatistico. Malgrado il ruolo dei manager che a suo dire mutavano il profilo del capitalismo, diversificandolo tra gestori e proprietari (quasi inutili). In realtà il management – che seppe analizzare in tempo – era e resta una «porzione» e una funzione del capitale finanziario, con cui esso deve fare i conti, anche quando nelle società entrano milioni di risparmiatori(con sindacati e fondi pensione).
Infine l’Europa, altra croce e delizia di Dahrendorf. Che fu membro della commissione esecutiva della Cee, dal 1970 al 1974. Per un conflittualista e pluralista come lui, nascondeva dei rischi di burocrazia. Un’eccessiva ingessatura vincolistica, capace di risvegliare nazionalismi sopiti. Non amava la Commissione europea non eletta, e le preferiva un parlamento eletto. Non credeva a una Super-nazione, e preferiva le cosiddette «cooperazioni rafforzate», tra stati che poco a poco avrebbero potuto garantire una struttura confederale aperta e allargata, un mercato unico regolato. Non una vera entità federale sovrana. Inadatta ai diversi livelli di sviluppo, e alle diverse «policies» necessarie a quei livelli. Forse sbagliava, con il senno di poi. Eppure visti certi risultati, tanti dei «caveat» di Lord Dahrendorf a riguardo andrebbero senz’altro riconsiderati.
L’Unità, 19 giugno 2009