Il problema non è l’opportunità o meno di stabilire una quota femminile per le posizioni che comportano potere decisionale e prestigio – in economia come in politica, nelle istituzioni culturali come nella Corte costituzionale. Il problema è come ridurre ed evitare che si riproduca una quota maschile che si avvicina al monopolio. Un monopolio così dato per scontato che nessun uomo si sognerebbe mai di ritenersi offeso, o sminuito nel riconoscimento delle proprie competenze, se assunto, promosso, designato proprio perché innanzitutto appartiene al “sesso giusto”. Viceversa l’introduzione di una “quota femminile” che intacchi minimamente quel monopolio è percepita come una ingiustizia degli uomini, che vedono ridursi le proprie possibilità. Spesso è anche percepita come un’offesa, o una diminuzione, da parte delle donne, che si sentono dequalificate se promosse anche in quanto tali.
Per questo è importante pensare alle quote innanzitutto in termini di rottura di un monopolio che di fatto, attraverso i meccanismi di cooptazione, ha ristretto ai soli uomini l’accesso alle posizioni più alte. È questa constatazione che ha mosso il legislatore norvegese: nonostante la retorica della parità, nonostante una uguaglianza sostanziale nei percorsi formativi, nella partecipazione al mercato del lavoro e negli stessi luoghi di decisione politica, là dove il potere decisionale rimane nelle mani di un gruppo ristretto di uomini questi tendono a mantenerlo al proprio interno e a scegliere solo chi è più simile a loro: altri uomini innanzitutto, con le stesse caratteristiche culturali, di classe sociale, di etnia e così via.
Ciò, per altro, non ha effetto solo nelle posizioni di vertice, ma lungo tutta la filiera delle posizioni e nei comportamenti sia dei decisori che delle donne stesse in tutte le fasi cruciali in cui si decide un investimento in capitale umano e in una carriera. Se l’accesso al vertice è bloccato, non si investirà in persone potenzialmente promettenti per le loro capacità ma, appunto, del “sesso sbagliato”. E molte giovani donne possono essere scoraggiate dall’intraprendere strade che produrranno loro frustrazioni. Con una perdita complessiva per tutti. Ci si dovrebbe chiedere a chi giova, al di fuori dei diretti interessati, ovvero del ristretto gruppo di uomini che aspirano a un posto di vertice, restringere la ricerca delle persone più adatte e competenti alla metà del capitale umano disponibile. Tanto più che non sempre la scelta è stata così saggia, la competenza così chiara, gli esiti così positivi. Vi è certo il timore che donne poco competenti vengano assunte al posto di uomini competenti solo per “riempire la quota”. Ma questo avviene più facilmente quando si pensa, appunto, in termini di quota femminile e non invece di rottura di un monopolio che vincola le possibilità e gli stessi criteri di scelta.
Non è detto che la via norvegese alla rottura del monopolio maschile sia esportabile facilmente. Ma il problema che pone lo è certamente, specie in un paese come l’Italia in cui la quota maschile è altissima in tutte le posizioni importanti in tutti i settori. Una ricerca Istat-Ministero delle Pari opportunità del 2004 segnalava che nelle 50 imprese più grandi del Paese solo l’1,3% dei consiglieri di amministrazione è rappresentato da donne. Bassissima anche la presenza negli organi decisionali delle organizzazioni imprenditoriali, anche se ora sia la Confindustria che i giovani imprenditori hanno a capo una donna. Tra i sindacati la situazione è migliore (23,6%). In Banca d’Italia solo con l’arrivo di Draghi qualche donna ha avuto una chance. Le magistrate sono ormai il 52% di tutti i magistrati. Ma, considerando i magistrati di Cassazione con funzioni superiori, la presenza femminile, pur in aumento, si colloca al 7,4%. Nessuna donna ha ancora raggiunto i livelli apicali di presidente della Corte di Cassazione o di Procuratore generale. Nella Corte dei Conti, nessuna donna ricopre il ruolo di Presidente di sezione. Non si tratta solo di ritardo fisiologico, dato che la femminilizzazione della magistratura è in atto ormai da diverso tempo. C’è una sola donna alla Corte Costituzionale. Nei ministeri le donne sono il 48% dei dipendenti, ma il 16,6% dei dirigenti. Tra i medici dirigenti di una struttura complessa la quota di donne è pari al 10%. Nell’Università, la percentuale di donne tra i professori ordinari è attorno al 16% e gli uomini superano le donne anche in settori, quelli letterari, ove le laureate sono la stragrande maggioranza. Nella scuola, le donne, pur essendo il 68% dei docenti laureati e il 90,9% di quelli diplomati, sono il 39,2% dei dirigenti. Se non sbaglio, vi è una sola donna direttore di quotidiano. E non parliamo della presenza nei luoghi decisionali della politica. Difficile spiegare questi dati con l’incompetenza femminile, o con la necessità di attendere che le leve di donne entrate in massa nella formazione e nelle professioni negli ultimi trent’anni percorrano tutta la filiera. Perché vengono fermate prima, non solo dalla necessità di fare fronte a un carico di lavoro familiare di cui continuano a detenere il non invidiabile monopolio, ma da chi ha il potere di riconoscere e promuovere.
la Repubblica, del 16 giugno 2009