All’inizio d’aprile, la primavera dell’economia mondiale sembrava davvero sul punto di sbocciare. Dopo il G-20 di Londra, analisti e commentatori hanno frugato tra statistiche di ogni genere alla ricerca di germogli che lasciassero presagire il ritorno di un radioso futuro. Ministri e commentatori non si sono stancati di ripetere che ormai il peggio era passato e che la ripresa era dietro l’angolo, anzi era già arrivata. A Londra, i governi di venti Paesi avevano posto il loro sigillo sul salvataggio delle grandi banche americane e inglesi (oltre ad alcune tedesche e olandesi) da parte dei rispettivi governi, mettendole tranquillamente a carico, mediante aiuti pubblici di dimensioni mai viste, dei contribuenti del futuro. Perché quindi continuare a preoccuparsi? Tempo qualche mese, i germogli sarebbero fioriti.
Il salvataggio dei giganti bancari era forse un percorso inevitabile, se si accetta l’idea che alcune di queste banche erano troppo grandi per essere lasciate fallire, ma non altrettanto inevitabile era la conclusione che l’economia fosse pronta a ripartire, in quanto le banche salvate sono ora, nel migliore dei casi, convalescenti e fragilissime. Eppure le Borse di tutto il mondo si entusiasmarono all’idea e risalirono dai minimi; siccome partivano da livelli molto bassi, la salita sembrava molto alta.
L’indice Dow Jones, una sorta di «termometro» del capitalismo finanziario, era sceso a fine marzo a quota 6500; ai primi di giugno aveva recuperato circa 2000 punti, con una crescita di quasi il 30%; eppure restava sotto di quasi il 30% alla quota 12 mila alla quale si trovava un anno fa. Il prezzo del petrolio è tornato a crescere, spinto quasi esclusivamente da una domanda finanziaria di tipo speculativo.
Tutto questo sembra finito. Fin dai primi giorni di giugno, una serie di dati negativi provenienti dall’economia reale ha bruscamente gelato questa primavera finanziaria. E ieri le Borse europee hanno perduto pesantemente terreno; quella italiana è arretrata di oltre il 2,5%. L’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, disegna, giorno dopo giorno, il ritratto di un’Europa che non solo assomiglia sempre più agli Stati Uniti nella disoccupazione – con quasi due milioni di posti di lavoro perduti nei primi tre mesi di quest’anno – ma li batte ampiamente nella caduta produttiva.
Nel primo trimestre del 2009 il prodotto lordo dell’Unione risultava inferiore di quasi il 5% rispetto al primo trimestre del 2008 mentre la produzione industriale europea di aprile era inferiore di circa il 20% a quella dell’aprile 2008. Dall’altro lato dell’Atlantico, la finanza non è affatto tranquilla, con ampi segnali di nervosismo sul debito pubblico americano, dopo che la domanda internazionale di titoli del Tesoro americano da parte di Cina, Giappone e Russia si è nettamente ridotta, proprio mentre gli Stati Uniti si apprestano a chiedere somme enormi in prestito sul mercato finanziario mondiale.
Ancora una volta le istituzioni economiche hanno dato prova di non avere il polso delle economie che dovrebbero controllare e sono state costrette a una frettolosa marcia indietro rispetto ai loro precedenti accenni d’ottimismo. Il Fondo Monetario afferma che il peggio della crisi non è ancora superato e la ripresa americana diventerà «solida» solo di qui a un anno; il segretario al Tesoro americano, Geithner, come il suo predecessore Paulson, deve compiere autentiche acrobazie verbali per non dare messaggi negativi. E quindi sposta in avanti ancora una volta la sospirata data della «svolta» e aggiunge che la ripresa sarà lenta. Lo sforzo di dare sicurezza ai mercati con qualche forzatura mediatica sembra essersi infranto contro gli scogli di un’economia reale in ritirata per la quale non si sta facendo abbastanza.
L’Italia è rimasta finora in una zona di relativa calma della tempesta mondiale, ma questo non è una garanzia per il futuro. Le «Note Regionali», frutto della nuova rete di rilevazioni e studi statistici, che la Banca d’Italia sta diffondendo in questi giorni, mostrano profonde debolezze strutturali, da tempo intuite ma mai così chiaramente messe in luce. La Campania ha il tasso di disoccupazione più elevato d’Europa e il calo produttivo del 2,8% «rappresenta un salto indietro di sette anni»; l’economia dell’Umbria nel 2008 «si è contratta in tutti i settori»; in Piemonte «l’urto della crisi potrebbe essere particolarmente significativo per le imprese in condizioni strutturali di fragilità finanziaria».
Non si può dar torto al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che invoca misure incisive da attuarsi in cento giorni; perché questo sia possibile, le forze politiche dovrebbero spostare maggiormente la loro attenzione sull’economia, alquanto dimenticata per argomenti più immediati e forse più futili, rinunciando magari alle ferie estive. Il rischio sembra diffondersi in tutti i settori e riguarda soprattutto la fascia delle imprese medie che sono meno esposte di quelle grandi ai riflettori dell’attualità e i cui bilanci semestrali cominceranno ad arrivare in luglio. Qualche forma di garanzia che non ricada direttamente sulle finanze dello Stato ma che veda in primo piano, tra gli altri, la Cassa Depositi e Prestiti, può oggi ancora risultare efficace e stimolare un’adeguata risposta tra le banche. Tra cento giorni, potrebbe non esserlo più. Il pericolo che i germogli di ripresa (per la verità assai pochi nel nostro Paese) possano essere tutti uccisi dall’attuale ondata di gelo è molto più reale di quanto normalmente si crede.
La Stampa del 16 giugno 2009