Certi facili entusiasmi possono far venire i brividi. Come nel caso della soddisfazione espressa per via delle statistiche del 2008 relative a una decrescita dei morti sul lavoro pari all’otto per cento. Leggo sul “Sole 24 ore” che ci sarebbero state 1.002 vittime nell’industria e nei servizi. Cui aggiungere, però , altre 120 nell’agricoltura. “Solo” millecentoventidue morti, dunque. Un calo dovuto in larga misura alla campagna incessante, fatta propria da molti mass media e istituzioni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica. Un calo frutto anche dei provvedimenti governativi varati dal centrosinistra e rallentati dal centrodestra e che, comunque, sono serviti a scoraggiare imprenditori spesso pronti a liberarsi dalle pastoie delle misure di sicurezza. Ora leggiamo che la Confindustria vara una mostra itinerante intitolata “Produciamo la sicurezza” dedicata ai bambini perché imparino subito a proteggersi dai futuri lavori. Ma perché la stessa Confindustria si ostina a premere sul governo amico affinché riduca le sanzioni previste dal centrosinistra? Eppure la sola minaccia di sanzioni sembra aver prodotto risultati nei confronti di imprenditori che spesso affrontano con faciloneria i problemi della tutela operaia. Non per cattiveria, ma perché così si risparmia. Investire in sicurezza ha dei costi immediati (risparmi nei tempi lunghi). E ci sarebbe da calcolare il terribile costo per le famiglie dei familiari. Ho letto, tramite il suggerimento dell’indefesso Marco Bazzoni (Operaio metalmeccanico e Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) una lettera di Graziella Marota, la mamma di Andrea Gagliardoni, un giovane che a 23 anni, il 20 giugno del 2006, è stato stroncato mentre lavorava all’Asoplast, azienda dell’indotto Merloni. Una mamma che dopo gli otto mesi di condizionale con la sospensione della pena, emessi nei confronti del titolare della fabbrica non si da pace. Un verdetto vissuto come un atto di scarsa giustizia. Graziella e altri hanno anche promosso un sito www.associazioneproandrea.it. Ora ha diffuso una lettera in cui rievoca la figura del figlio che voleva imparare a suonare la tromba, ma non ha fatto in tempo. Lei parla di una “sconfitta dolorosa” qui come nelle tante tragedie sul lavoro (Umbria-Oli, Molfetta, Thyssenkrupp, Mineo), una via Crucis quotidiana. Così tutto rischia di finire nel dimenticatoio, mentre non si promuovono “ronde per la sicurezza”. È comprensibile la sete di giustizia. Eppure la giusta caccia ai colpevoli non potrà far rivivere Andrea e i tanti come lui. Quello che bisognerebbe sradicare sono le colpe del futuro, le cause delle morti, imponendo tutti i mezzi possibili atti a proteggere le persone, impedire i sacrifici di nuovi Andrea. Dando innanzitutto ruolo e potere, partecipazione vera, al mondo del lavoro e ai suoi rappresentanti. Senza deleghe.
L’Unità, 15 giugno 2009
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