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“Il rischio del non voto”, di Michele Serra

Una delle incognite di queste elezioni è l’ astensionismo di sinistra. Lo spettacolo, annoso e dannoso, delle lotte intestine tra dirigenti sempre più anziani e sempre più narcisi; e la presenza nel Pd di una componente clericale (che non è sinonimo di cattolica) che boicotta in partenza ogni riforma laica sembrano, tra i tanti, i due elementi più respingenti. Così respingenti da rischiare di mettere in ombra perfino le evidenti conseguenze che l’ astensione avrebbe sulla scena politica: rafforzare ulteriormente il centrodestra. Nelle discussioni tra amici, nelle lettere ai giornali, impressiona la natura “nuova” di questi aspiranti astensionisti. In larga parte non appartengono all’ area da sempre irrequieta del radicalismo ideologicoo dell’ antipolitica. Si tratta in molti casi di militanti di lungo corso della sinistra storica, profondamente partecipi della vita sociale, gente di sindacato, di partito, di primarie, di assemblee di quartiere, a suo agio nelle faccende pubbliche. Il tono, più che disgustato, è stremato: scusate, ma non ce la faccio più. Oppure si tratta di giovani che si sentono drasticamente esclusi dal discorso pubblico, e ne traggono l’ altrettanto drastica conseguenza di rispondere per le rime: voi non vi occupate di me, io non mi occupo di voi.

Alle persone della mia formazione politica e della mia generazione, l’ astensionismo è sempre parso una diserzione imperdonabile. Oggi mi sembra soprattutto un disperato gesto politico, nella speranza di staccare la spina a questa sinistra, e soprattutto alla nomenklatura di questa sinistra, per far rinascere finalmente altro, e altri. Ma con altrettanta onestà voglio spiegare, da cittadino, perché ho deciso di andare a votare, mettendo da parte dubbi e perplessità. E perché considero un errore (un errore, non una colpa) non farlo. Il potere smisurato e quasi senza argini di Berlusconi è una ragione assolutamente ovvia e stradetta, ma non per questo meno evidente, e grave.
Una sinistra ulteriormente indebolita (il Pd prima di tutto, ma anche le altre liste di opposizione) confermerebbe lui, e la sua folta claque, nella presunzione di poter fare finalmente e definitivamente da soli. E senza più impicci. Già parla “in nome del popolo” e “in nome degli italiani”: come dirgli “ma non in mio nome” senza andare a votare per l’ opposizione, e a fare numero? Ma accanto a questa ragione, urgente ma tutto sommato contingente (Berlusconi è solo una lunga parentesi di una storia molto più lunga e importante di lui), nella decisione di andare comunque a votare pesa una concezione radicata non solo e non tanto della politica, quanto della persona-cittadino. Per dirla in parole molto semplici, autoriferite per comodità, non riesco a immaginarmi non votante senza sentirmi in disaccordo con me stesso. Non dico in colpa: i sensi di colpa non portano mai lontano. Dico in disaccordo con me stesso.
In questo stato d’ animo conterà certo qualcosa il “richiamo della foresta”: se si passa una vita intera a considerare il voto come un diritto-dovere (così, del resto, lo definisce la Costituzione), non è facile passare davanti a un seggio elettorale voltando la testa dall’ altra parte. Ma conta, più di tutto, il fatto che nell’ astensione percepisco un elemento di platealità (mi si nota di più se non vado…) che si incastra perfettamente nell’ eccesso di emotività nazionale. Votare, almeno per me, è un gesto umile e razionale. Significa, lo dico brutalmente, accettare di far parte di una mediocrità collettiva (la democrazia è anche questo) piuttosto che di un’ eccellenza appartata. Votare significa accettare i limiti non solo di un partito e dei suoi candidati, ma anche i propri. Il non voto è una specie di “voto in purezza”, un gesto estetico e sentimentale che antepone l’ integrità dell’ io alla contaminazione del noi. L’ astensionista menefreghista (quello che una volta si chiamava qualunquista) è uno che non si immischia, l’ astensionista nobilee deluso di oggi è uno che non si mischia: cerca di salvare se stesso, la propria coscienza, la propria coerenza, levandoli dal tavolo di gioco e portandoseli a casa. Se è il narcisismo la colpa che, giustamente, si imputa ai dirigenti della sinistra e del centrosinistra, specie i post-comunisti, l’ astensionista sappia che rischia di peccare anch’ egli di narcisismo. Aiuta e serve solo se stesso, lasciando in mani altrui la precaria, vischiosa materia dell’ identità collettiva. Questa sinistra, queste sinistre, sono anche il prodotto delle nostre idee (quelle giuste e quelle sbagliate) e delle nostre vite. I loro pregi e i loro difetti assomigliano molti ai nostri. Aggiungere alla lista dei difetti la rinuncia astensionista, e sottrarre a quella dei pregi l’ umiltà dell’ impegno pubblico, non aiuta di certo a migliorare il bilancio: della sinistra e delle persone di sinistra.

La Repubblica, 4 giugno 2009

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