Una parola in dialetto, multa di 100 lire. Una parolaccia, multa da 2 mila. Una bestemmia, fino a 5 mila. Così la scuola Cesare Baronio, a Vicenza, costringeva gli studenti a parlare pulito. Era il 1999, sono passati solo dieci anni. Eppure sembra un’altra epoca. Oggi il dialetto non è più una bestemmia: si studia, si parla e alle multe non pensa più nessuno. Certo non ci pensa la Lega Nord che lo vorrebbe trasformare in un insegnamento obbligatorio nella nuova scuola «federale », come la matematica o la storia. La proposta, però, diventa un caso politico, e apre un’altra crepa nei rapporti fra Lega e gli ex di Alleanza nazionale. È il Secolo d’Italia, il giornale di casa, a dare voce ai dubbi che si addensano sulla sponda destra del Pdl: «L’apprendimento coattivo del dialetto — scriveva venerdì il Secolo in prima pagina — postula sul piano culturale, antropologico e istituzionale la dissoluzione dell’unità d’Italia».
Colpa della campagna elettorale, forse. Perché in questi giorni di comizi ognuno tira acqua al suo mulino e sia il dialetto che l’unità nazionale sono due bandierine da tenere bene in vista. Ma resta il fatto: è un giornale alleato ad accusare la Lega di «approccio mistificatorio» di «falsificazione mitografica di un passato mai esistito», di voler «barbarizzare la tradizione italiana ». Fuoco amico da far invidia alla litigiosa maggioranza del governo Prodi. Aveva cominciato giorni fa il ministro per le Politiche agricole, il leghista Luca Zaia, a parlare di dialetto obbligatorio a scuola. Poi era arrivato il commento freddino («progetto difficile da realizzare») di Mariastella Gelmini, anche se già adesso il ministero della Pubblica istruzione finanzia 194 progetti per le lingue locali. Poco dopo era stato il senatore leghista Federico Bricolo a rilanciare, con una proposta di legge sparata a tutta pagina dalla Padania, fino all’ultimo contrattacco del Secolo.
Eppure, mentre Lega ed An se le danno di santa ragione via giornale di casa, alla Camera zitto zitto il dialetto fa i suoi primi passi. Mercoledì scorso è cominciato in commissione cultura il dibattito sulla proposta di legge della leghista Paola Goisis che prevede proprio l’insegnamento a scuola delle «lingue locali». Anzi, in quel testo c’è molto di più. Perché si stabilisce che il ministero della Pubblica istruzione debba dare più peso nei programmi alle «specificità culturali, geografiche e storiche delle comunità locali ». Un esempio? Nella relazione che accompagna il testo l’onorevole Goisis, che è anche insegnante, scrive che il «Risorgimento deve essere ristudiato su basi regionali». E cioè: «Lo studio della realtà sabauda per gli studenti del Piemonte può assumere un’importanza non inferiore a quella che riveste lo studio della realtà borbone per gli studenti delle regioni meridionali o del califfato arabo e dei ducati normanni per gli studenti della Sicilia». Il Risorgimento e il califfato arabo.
Corriere della Sera 31.05.09