Che i dialetti siano in realtà delle lingue (dialektos vuol dire lingua), dotate anche di una vasta produzione letteraria, è una di quelle ovvietà che possono serenamente reggere al succedersi dei secoli. Non meno documentato è il fenomeno della costante mescolanza linguistica, dovuta al procedere della storia. E lo stesso può dirsi della mescolanza dei costumi. Contro tali mescolanze si ergono i fondamentalismi. La demagogica richiesta di introdurre come disciplina scolastica lo studio dei dialetti parlati in ciascuna area del nostro Paese è, per l’appunto, un aspetto non nuovissimo di tale fondamentalismo. Istanza demagogica che sarebbe invero di non semplice applicazione: a Grosseto rispetto a Siena, così come a Potenza rispetto a Matera, a Cairo Montenotte rispetto a Ivrea, per non dire di Lecce rispetto a Foggia, il dialetto cambia, e in modo rilevante, all’interno della stessa regione. Il che rischierebbe di moltiplicare il problema ad infinitum.
Esistono, come è noto, fiorenti insegnamenti dialettologici nelle nostre università. Per converso, l’inserzione di una monocultura dialettale strettamente epicorica in ciascun borgo del nostro linguisticamente ricchissimo Paese sarebbe la maniera in assoluto più antiscientifica di avvicinarsi ad un problema serio. Avrebbe semmai più senso — se il tempo disponibile a scuola lo consentisse — far meglio conoscere, in una regione, i dialetti di altre regioni: onde evitare l’autocontemplazione tautologica e per avvicinarsi con mente storica alla comprensione della diversità.
Consigliamo perciò a Riccardo Illy (fautore dell’insegnamento del friulano nelle scuole) il vivace volume di Franz Falanga, dotto architetto pugliese dimorante da decenni a Cavaso, ai piedi del Grappa, intitolato O dadò o dadà, lessico raccontato e quasi ragionato dei termini dialettali baresi, Adda Editore. Così potrà meglio avvicinarsi alla poesia del canonico e patriota Francesco Saverio Abbrescia (Modugno 13 luglio 1813 – Bari 5 novembre 1852) ed interpretare versi ardui come ad esempio uèlde n’écchie de piatà. Ma come non capire che i dialetti del tempo nostro, cioè di un tempo unificato e interdipendente, sono semmai le lingue nazionali?
da Corriere della Sera