L’occupazione femminile è ormai entrata nella hit parade dei temi più dibattuti ma l`Italia è ancora il Paese europeo con la più bassa percentuale di donne che lavorano: 47,2% rispetto a una media Ue del 59,1%. Solo l`Emilia Romagna ha raggiunto il cosiddetto obiettivo di Lisbona, superando di poco il 6o°%o. Magra consolazione: le regioni più prospere della Francia o della Germania registrano valori più alti di almeno dieci punti. Se tutta l`Italia si allineasse agli standard europei, le dimensioni del Pil aumenterebbero del sei per cento o più. L` esperienza di molti Paesi mostra che il lavoro delle donne costituisce poi un vero e proprio volano di sviluppo: la torta cresce più rapidamente per tutti.
Perché non riusciamo a passare dalle parole ai fatti? Per una sfortunata coincidenza, la maggiore sensibilità pubblica nei confronti del «fattore D» ha coinciso con l`arrivo della crisi. L`attenzione politica si è così spostata verso obiettivi di natura difensiva: aiutare le imprese, sussidiare i disoccupati.
È una reazione comprensibile, ma poco lungimirante.
Vi sono molte misure che costano poco o nulla e che si potrebbero varare subito, senza compromettere il raggiungimento di altri obiettivi. Pensiamo a nuove regole sull`organizzazione del lavoro o sui periodi e orari di apertura degli uffici pubblici, degli asili, delle scuole.
La flessibilità dei tempi e delle modalità di lavoro è indicata come primo ostacolo alla «conciliazione» dalla stragrande maggioranza delle donne italiane. Come suggerisce un recente rapporto Ocse, si potrebbe avviare anche un nuovo round di liberalizzazioni.
Le imprese sarebbero stimolate a valorizzare i talenti «rosa», con una ricaduta in termini di maggiore occupazione femminile stimabile fra uno e due punti percentuali.
Certo, un pacchetto incisivo dovrebbe includere anche misure onerose per la finanza pubblica (fiscalità premiale, asili, congedi parentali). Alcune risorse per muovere in questa direzione potrebbero tuttavia arrivare dalla rimodulazione dell`età pensionabile delle donne: in tema circolano già molte proposte intelligenti.
La vera ragione per cui non si fanno progressi non è di natura economica, ma politica.
Negli altri Paesi il motore dell`occupazione femminile si è acceso quando si sono verificate due condizioni. Primo: la formazione di «coalizioni pro donne» in seno alla classe dirigente (imprenditori, leader sindacali, intellettuali) e all`élite politica, spesso con raccordi trasversali rispetto agli allineamenti ideologici e partitici. Secondo: l`esercizio di pressioni mirate in tutte le sedi istituzionali rilevanti, a livello locale, nazionale e sovra-nazionale.
Diciamolo chiaramente: nonostante i meritevoli sforzi di alcune singole personalità e associazioni, nel nostro Paese una stabile coalizione pro donne ancora non c`è. Le cause sono molteplici e affondano le proprie radici nella cultura e nella logica di funzionamento del nostro sistema politico. Vi è però anche un problema di bassa capacità di coordinamento e mobilitazione, un deficit di incisività quando si cerca di influire sui processi decisionali. Continuiamo pure a discutere di womenomics nei convegni. Ma ciò che serve davvero è un po` di womenolitics, un serio lavoro politico per le donne, con le donne e in larga misura su iniziativa delle donne (a cominciare da quelle che occupano posizioni di vertice). Siamo in campagna elettorale: qualche passo concreto e visibile in questa direzione potrebbe essere fatto già nelle prossime settimane.
Corriere della Sera, 19 maggio 2009