Da Fiat a Microsoft: in 14 società una scuola per capi donna. In Italia nei Cda le consigliere sono solo il 4%. Eppure i vertici “in rosa” sono più efficienti. Il progetto prevede l’affiancamento delle dirigenti che hanno qualità per diventare leader.
MILANO – Lontana dai partiti, autonoma dalle associazioni, snobbata dal femminismo. La nuova marcia delle donne verso il potere parte dalla imprese: sono quattordici grandi aziende, compresi colossi come Fiat e Microsoft, a proclamare che la donna nobilita il lavoro e a impegnarsi in un progetto che in Italia non si era mai visto: una grande scuola quadri per manager donne destinata a colorare di rosa i vertici, da sempre saldamente in mano agli uomini. Le quote non c’entrano, ma nel più classico stile aziendale ci sono gli obiettivi: far salire dall’attuale misero 4 al 21 per cento la rappresentanza femminile nei luoghi dove si prendono le decisioni. Il progetto ha un nome che ne riassume la filosofia, Valore D, e si basa su una convinzione tutta interna alle logiche del mercato: le donne al comando migliorano le performance delle imprese e là dove ci sono gli indicatori di redditività schizzano verso l’alto.
Sono bastati sei mesi per mettere in piedi il progetto, che da giugno entrerà in fase operativa. Qualcosa di simile era accaduto solo in Norvegia, all’indomani dell’approvazione della legge che imponeva un 40 per cento di donne nei consigli di amministrazione. In Italia è un tema molto di moda, tanto che il saggio di Roger Abravanel, “Meritocrazia”, che individua nelle donne “l’arma segreta” per combattere la crisi, è diventato un bestseller. Ma anche che fare carriera sia un mestiere che le donne devono imparare è ormai una tesi affermata. Come scrive Cristina Bombelli nel suo “Alice in businessland”, “le donne hanno le carte in regola per affrontare il tema del potere e la proposta di un nuovo modello di leadership, ma devono essere le prime a convincersi che possono farlo”.
Valore D ha studiato come insegnarlo: affiancherà alle donne emergenti dei mèntori, ci saranno lezioni di ruolo tenute da donne “arrivate”, verranno sottoposti alle aziende nuovi modelli di organizzazione, partiranno piani di formazione per insegnare alle future leader quello che non sanno, ossia a essere sicure di sé e a fare gruppo. Il punto di partenza dell’iniziativa è stata una ricerca di McKinsey: l’Italia è all’ultimo posto in Europa per il tasso di occupazione femminile. Nelle istituzioni le donne sfiorano appena il 18 per cento, nei consigli di amministrazione il 4.
Eppure, il beneficio di una maggiore rappresentanza femminile ai vertici è evidente: dove ci sono, il Roe è superiore del 10 per cento e l’Ebit quasi doppio. Ancora: le studentesse sono più brave degli studenti e non studiano solo filosofia: le laureate in ingegneria sono il 29 per cento, tre punti sopra la media europea. Dice Simona Scarpaleggia, country manager di Ikea, presidente di Valore D: “Non ne potevo più di andare ai convegni a parlare sempre delle stesse cose senza che le parole sfociassero in azioni concrete. Così, con altre colleghe, abbiamo deciso di fare qualcosa e abbiamo convinto le nostre aziende a impegnarsi”.
Intervistando duemila donne che “ce l’hanno fatta”, la ricerca ha individuato i nodi irrisolti. Dopo aver smitizzato molti luoghi comuni. Non è vero, ad esempio, che alla crescita generale dell’occupazione femminile corrisponde un aumento della leadership, salita negli ultimi anni solo dell’1 per cento, anche nei settori a tradizione femminile i capi sono maschi, nella sanità, ad esempio, sono i due terzi. E non è vero che le donne non hanno voglia di fare carriera, il 34 per cento vorrebbe eccome, è che per farla devono superare talmente tanti ostacoli che a volte per non impazzire rinunciano. Ecco individuati i problemi: la mancanza di strutture di supporto alla maternità, il doppio incarico, la scarsa flessibilità delle aziende.
Come conferma Elisabetta Olivieri, amministratore delegato di Sirti: “La gestione del tempo è dettata dall’agenda maschile: non è necessario restare in ufficio fino alle otto per essere efficienti”. Valore D non sarà, spiega Micol Fornaroli, partner di McKinsey, “un salotto per bere il tè”, ma un luogo dove si lavorerà duro e dove si misureranno i risultati. E a passare l’esame, stavolta, dovranno essere le aziende.
(La Repubblica del 18 maggio 2009)