Era la notte del 6 aprile, quando il Mostro ha squassato l’Abruzzo, inghiottito 298 vite umane, distrutto L’Aquila, Onna, San Gregorio, Poggio Picenze… Dalle 3 e 32 di quel lunedì nero è passato un mese esatto. E tra le tende e le macerie, tra il dolore dignitoso dei sopravvissuti e il lavoro prezioso dei volontari, si spegne lentamente la speranza di normalità di un popolo. Nei primi giorni dopo il sisma la gente d’Abruzzo ha apprezzato la tangibile «presenza dello Stato». Ma ora si interroga sull’assenza di un futuro. Il «Pacchetto Ricostruzione» varato dal governo il 28 aprile è affidato a 19 articoli. Dagli «Interventi immediati per il superamento dell’emergenza» alle «Misure urgenti per la ricostruzione», dagli «Interventi per lo sviluppo socio-economico per le zone terremotate» alle «Misure per la prevenzione del rischio sismico».
Impegni solenni, progetti altisonanti. Garantiti dalle solide certezze del presidente del Consiglio. Ma se scorri il testo del provvedimento, ti accorgi che lì dentro di veramente solido c’è poco e niente.
Tutto balla, in quello che è già stato ribattezzato il «Decreto Abracadabra». Le cifre, innanzitutto. Dopo il Consiglio dei ministri straordinario del 23 aprile, Berlusconi e Tremonti avevano annunciato uno stanziamento di 8 miliardi per la ricostruzione dell’Abruzzo: 1,5 per le spese correnti e 6,5 in conto capitale. A leggere il decreto 39, si scopre che lo stanziamento è molto inferiore, 5,8 miliardi, ed è spalmato tra il 2009 e il 2032. Di questi fondi, 1,152 miliardi sarebbero disponibili quest’anno, 539 milioni nel 2010, 331 nel 2011, 468 nel 2012, e via decrescendo, con pochi spiccioli, per i prossimi 23 anni. Da dove arrivano queste soldi? Il governo ha spiegato poco. Il premier, ancora una volta, ha rivendicato il merito di «non aver messo le mani nelle tasche degli italiani». Il ministro dell’Economia si è fregiato di aver reperito le risorse «senza aumentare le accise su benzina e sigarette, senza aumenti di tasse, ma spostando i fondi da una voce all’altra del bilancio». Il «Decreto Abracadabra» non aiuta a capire. Il capitolo «Disposizioni di carattere fiscale e di copertura finanziaria» dice ancora meno. Una prima, inquietante cosa certa (come recita l’articolo 12, intitolato «Norme di carattere fiscale in materia di giochi») è che la ricostruzione in Abruzzo sarà davvero un terno al lotto: 500 milioni di fondi dovranno arrivare, entro 60 giorni dal varo del decreto, dall’indizione di «nuove lotterie ad estrazione istantanea», «ulteriori modalità di gioco del Lotto», nuove forme di «scommesse a distanza a quota fissa». E così via, giocando sulla pelle dei terremotati. Un «gioco» che non piace nemmeno agli esperti del Servizio Studi del Senato: «La previsione di una crescita del volume di entrate per l’anno in corso identica (500 milioni di euro) a quella prevista a regime per gli anni successivi – si legge nella relazione tecnica al decreto – potrebbe risultare in qualche modo problematica». Una seconda, inquietante cosa certa (come recita l’articolo 14, intitolato «Ulteriori disposizioni finanziarie») è che altre risorse, tra i 2 e i 4 miliardi di qui al 2013, dovranno essere attinte al Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, che dalla Finanziaria in poi è diventato un vero Pozzo di San Patrizio, dal quale il governo pompa denaro per ogni emergenza, senza che si capisca più qual è la sua vera dotazione strutturale.
E questo è tutto. Per il resto, la copertura finanziaria disposta dal decreto è affidata a fonti generiche e fondi imprecisati: dai soldi dell’Istituto per la promozione industriale (trasferiti alla Protezione civile per «garantire l’acquisto da parte delle famiglie di mobili ad uso civile, di elettrodomestici ad alta efficienza energetica, nonché di apparecchi televisivi e computer») al trasferimento agli enti locali dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti. A completare il gioco di prestigio contabile, non poteva mancare il solito, audace colpo a effetto, caro ai governi di questi ultimi anni: altri fondi (lo dice enfaticamente il comma 4 dell’articolo 14) potranno essere reperiti grazie alle «maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, anche internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi». Insomma, entrate scritte sull’acqua. A futura memoria. E a sicura amnesia.
Ma non è solo l’erraticità dei numeri, che spaventa e preoccupa nel «Pacchetto Ricostruzione». A parte gli interventi d’emergenza, ci sono altri due fronti aperti e dolenti per le popolazioni locali. Un fronte riguarda l’edificazione delle case provvisorie («a durevole utilizzazione», secondo la stravagante formula del decreto) che dovrebbero garantire un tetto ad almeno 13 mila famiglie, pari a un totale di 73 mila senza tetto attualmente accampati nelle tendopoli. I fondi previsti per questi alloggi (nessuno ancora sa se di lamiera, di legno o muratura) ammonterebbero a circa 700 milioni. Ma 400 risultano spendibili quest’anno, 300 l’anno prossimo.
Questo, a dispetto del giuramento solenne rinnovato dal Cavaliere a «Porta a Porta» di due giorni fa, fa pensare che l’impegno di una «casetta» a tutti gli sfollati entro ottobre, o comunque prima del gelo invernale, andrà inevaso. Quasi la metà di loro (secondo il timing implicito nella ripartizione biennale dei fondi) avrà un tetto non prima della primavera del prossimo anno.
Un altro fronte, persino più allarmante, riguarda la ricostruzione delle case distrutte. Il governo ha annunciato «un contributo pubblico fino a 150 mila euro (80 mila per la ristrutturazione di immobili già esistenti), a condizione che le opere siano realizzate nel rispetto della normativa antisismica».
Basterà presentare le fatture relative all’opera da realizzare, e a tutto il resto penserà Fintecna, società pubblica controllata dal Tesoro, che regolerà i rapporti con le banche. Detta così sembra facilissima. Il problema è che quei 150 mila euro nel decreto non ci sono affatto. Risultano solo dalle schede tecniche che accompagnano il provvedimento. E dunque, sul piano legislativo, ancora non esistono. Non basta. Sul totale dei 150 mila euro, il contributo statale effettivo sarà pari solo a 50 mila euro. Altri 50 mila saranno concessi sotto forma di credito d’imposta (dunque sarà un risparmio su somme da versare in futuro, non una somma incassata oggi da chi ne ha bisogno) e altri 50 mila saranno erogati attraverso un mutuo agevolato, sempre a carico della famiglia che deve ricostruire, che dunque potrà farlo solo se ha già risparmi pre-esistenti. Se questo è lo schema, al contrario di quanto è accaduto per i terremoti dell’Umbria e del Friuli, i terremotati d’Abruzzo non avranno nessuna nuova casa ricostruita con contributo a fondo perduto. Anche perché nelle schede tecniche del decreto quei 150 mila euro sono intesi come «limite massimo» dell’erogazione. Ciò significa che lo Stato declina l’impegno a finanziare la copertura al 100% del valore dell’appartamento da riedificare.
Nel «Decreto Abracadabra», per ora, niente è ciò che appare. Man mano che si squarcia la cortina fumogena della propaganda, se ne cominciano ad accorgere non solo i «soliti comunisti-sfascisti» dell’opposizione come Pierluigi Bersani (che accusa l’esecutivo di trattare gli aquilani come «terremotati di serie B»), ma anche amministratori locali come Stefania Pezzopane, o perfino presidenti di Confindustria come Emma Marcegaglia, che l’altro ieri a L’Aquila ha ripetuto «qui servono soldi veri». C’è un obbligo morale, di verità e di responsabilità, al quale il governo non può sfuggire. Lo deve agli abruzzesi che soffrono, e a tutti gli italiani che giudicano. L’epicentro di una tragedia umana non può essere solo il palcoscenico di una commedia politica.
La Repubblica, 7 maggio 2009