Da poche settimane si sono chiuse le celebrazioni per il settimo centenario della fondazione dell’Ateneo di Perugia. A coronamento di questo evento giunge una circolare del rettore significativamente intitolata «Frequentazione di strutture dell’Università da parte di personale esterno (c.n.)» con cui si ingiunge ai responsabili delle strutture universitarie, presidi, direttori di dipartimenti, presidenti di corsi di laurea, ecc., di impedire l’accesso nelle suddette strutture a quei ricercatori precari, per lo più giovani studiose e studiosi, talora ex-dottorande/i ed ex-assegniste/i, che svolgono normalmente attività didattica e di ricerca a titolo gratuito nell’università di Perugia, così come in ogni altra università italiana.
Ragioni del divieto i possibili danni che «tali soggetti» potrebbero subire o arrecare a persone e cose nei locali dell’università, nonché «gli indebiti costi che la loro permanenza comporta.. per l’Ateneo».
È dunque questa l’Universitas, lo Studium Generale, che con giusto orgoglio il Rettore ha celebrato per un intero anno? Il luogo chiuso, angusto e fobico che la circolare propone? Ma l’Università è al contrario sempre stata uno spazio aperto, un luogo di incontro di saperi e di culture; è questo il suo ambito e il suo confine naturale, certamente non circoscrivibile in ragione dello status di chi vi partecipa. La libertà di insegnamento e di ricerca sono ciò che, nonostante tutto, ha consentito all’università italiana di sopravvivere e progredire, di produrre e diffondere conoscenza, e sono ancora oggi riconosciute, coltivate e difese come uno dei fondamenti della società democratica.
Possiamo davvero considerare la ricchezza, materiale e immateriale, che i giovani ricercatori producono per e nell’università una fonte di danno? In realtà è stranoto che una gran parte del lavoro cognitivo che si fa nell’università italiana è svolto da ricercatori non pagati. L’università di Perugia non fa eccezione in questo, al contrario il budget che è in grado di destinare all’organico è così limitato che le possibilità di strutturare i giovani ricercatori sono oggi esigue ed anche in futuro si dovrà fare affidamento sul lavoro precario per garantire il normale funzionamento delle facoltà. Stupisce allora che il rettore Bistoni, ormai giunto al nono o decimo anno di mandato, venga a conoscenza solo adesso della «…continuativa presenza all’interno delle diverse strutture universitarie, di personale estraneo all’Ateneo per lo svolgimento di collaborazioni gratuite nelle varie attività» (sic!).
Quale università ha governato sin ora?
La verità è che negli ultimi mesi i giovani precari che operano nell’università di Perugia si sono organizzati per rivendicare il riconoscimento di un ruolo all’interno dell’Ateneo. Non a caso la circolare rettorale paventa la possibilità di rivendicazioni «comportanti ingenti oneri per l’Ateneo» relative a prestazioni irregolari non seguite da compensi e versamenti contributivi. E tuttavia l’obiettivo non è solo goffamente prudenziale. Dietro la circolare c’è qualcosa di ulteriore e diverso, ossia l’intento di allontanare fisicamente gli «agitatori»: agli aderenti alle associazioni che «perseguano scopi di tutela dei diritti degli associati contro l’Ateneo» – cosa che evidentemente è vista come di per sé sovversiva e illegittima – deve assolutamente essere preclusa «la frequentazione e l’uso delle strutture dell’Università». Non solo l’università non è più il luogo dove la libertà costituzionale di associarsi può essere esercitata. Quest’ultima diventa persino l’occasione per una discriminazione su base personale: non solo e non tanto è interdetta l’attività della tale associazione all’interno delle strutture universitarie, quanto piuttosto è fatto divieto ai suoi aderenti, in quanto tali, di avervi accesso.
L’Unità, 4 maggio 2009
* Ordinaria di diritto privato
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