La centralità dell’istruzione quale condizione per un’effettiva mobilità sociale e per un armonico sviluppo economico è stata affermata a più riprese dalle fonti normative comunitarie. In questo quadro, il Processo di Bologna – spontaneamente avviato dalle Istituzioni Universitarie di 29 paesi europei alla fine degli anni ’90 e pienamente inserito nel più ampio processo di costruzione dello Spazio europeo dell’istruzione – ha indicato quali obiettivi primari l’internazionalizzazione, la qualità degli studi universitari e l’impiegabilità dei laureati. L’attuazione di questo processo ha portato, però, ad esiti ancora non soddisfacenti.
Il percorso compiuto negli ultimi anni dal sistema universitario italiano è stato fortemente influenzato da questo nuovo contesto europeo. In particolare, la nuova disciplina degli ordinamenti didattici universitari introdotta nel 1999, e successivamente modificata nel 2004, è quella che più ha subito l’influenza delle trasformazioni richieste a livello europeo alle Università per innovarsi, modernizzarsi e divenire più competitive.
Il disegno complessivo dell’Università italiana che sembra emergere dai documenti ufficiali sullo stato di avanzamento del Processo di Bologna è quello di una Università fortemente impegnata a riequilibrare i percorsi formativi in un’ottica di semplicità, sostenibilità e qualità, anche attraverso una diffusa attività di promozione e divulgazione del Bologna Process all’interno delle istituzioni universitarie.
Gli ultimi Bologna stocktaking report si concludono con l’incoraggiamento a completare il processo di attuazione della Dichiarazione di Bologna con le seguenti azioni: l’ulteriore riduzione del tasso di abbandono; l’incremento del numero degli studenti che completano il ciclo di studi entro i termini previsti; il miglioramento del tasso di occupazione dei laureati di primo livello; e infine, il rafforzamento della internazionalizzazione del sistema di istruzione nel suo complesso.
Eppure, se si passa da questi dati ufficiali agli esiti delle analisi che, a livello nazionale, hanno compiuto una prima misurazione degli effetti di queste riforme, il quadro si fa più problematico.
A suscitare preoccupazione sono, in primo luogo, i dati contenuti nell’ultimo Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario realizzato dal CNVSU, che, sia pure «in presenza di alcuni elementi di novità, in parte positivi, e in controtendenza rispetto al passato», fornisce un quadro definito dallo stesso Comitato «critico, che fa emergere una situazione tornata, per certi versi, all’assetto poco incoraggiante del periodo pre – riforma». Colpiscono, in particolare, i dati relativi all’alta percentuale di studenti non in regola con il corso di studi (40,7 %) e alla durata media del corso di studi (4,6 anni per la laurea triennale), a cui si affiancano dati relativi all’alto tasso di abbandono ed al numero di studenti inattivi.
Anche i dati sulla employability dei laureati non sembrano incoraggianti. Secondo l’ultimo rapporto Almalaurea, i modesti segnali di ripresa del tasso di occupazione dei laureati italiani sembrano, infatti, scontrarsi con gli effetti prodotti dalla crisi economica, che ha portato ad un consistente aumento degli impieghi precari e, dall’altro, con la crescita, ancora insufficiente per recuperare il ritardo a livello europeo, del numero dei laureati prodotti dalle nostre Università.
Quali che siano le cause di questa situazione, un dato certo è che ad aggravare il quadro ha contribuito l’approccio disorganico in cui legislatore ha affrontato il tema della riforma universitaria, che ha impedito allo stesso corpo docente di comprenderne a fondo le motivazioni e di collocarle nel solco tracciato dall’Europa, e che ha disorientato gli studenti ed il mondo del lavoro.
Mai come in questo ultimo periodo, poi, la riforma dell’Università, da tema di dibattito per giuristi e tecnici, si è trasformata in terreno di scontro politico e di contestazione sociale. A differenza di quanto avvenuto in altri paesi europei, tuttavia, le contestazioni sui provvedimenti di riforma non hanno investito il processo di adeguamento del modello dell’istruzione superiore agli standard europei, sui quali vi è un diffuso consenso, ma si sono concentrate, piuttosto, sulla politica di tagli alle risorse pubbliche destinate all’istruzione e sui rischi connessi all’eventuale ingresso di capitali privati nelle Università.
Quali suggerimenti possano trarsi, allora, dal metodo che ha ispirato il Bologna Process per uscire da questo impasse?
Il primo suggerimento è senz’altro quello di procedere nella direzione di una autonomia piena delle Università: quella autonomia che ha rappresentato il presupposto della dichiarazione di Bologna ed il motore propulsivo indispensabile per la sua effettiva attuazione. E’ senz’altro vero che la gestione irresponsabile dell’autonomia da parte di alcune Università ha nuociuto all’equilibrata gestione, alla qualità ed al merito. E’ tuttavia altrettanto vero che il diritto delle Università, costituzionalmente riconosciuto, di «darsi ordinamenti autonomi» è stato sinora attuato soprattutto sul versante dell’autogoverno, a scapito dei tre versanti decisivi della determinazione degli ordinamenti didattici, del reclutamento del personale docente e della gestione delle risorse.
Questa autonomia va tuttavia bilanciata – come fortemente richiesto prorpio dal Bologna Process – con l’introduzione di strumenti utili ad assicurare una misurazione effettiva della qualità dell’insegnamento e della ricerca e con la previsione di meccanismi di incentivazione fondati sul merito e di corrispondenti ed adeguati strumenti di valutazione e di sanzione, necessari a completare il circuito virtuoso che lega autonomia e responsabilità.
Un altro suggerimento non può che essere quello di assumere più fortemente ed in maniera non solo formale la dimensione europea come punto di riferimento per la impostazione dei problemi e per la ricerca delle soluzioni in grado di valorizzare adeguatamente il ruolo strategico della conoscenza e della formazione, tenendo conto della dimensione dei mutamenti dovuti alla globalizzazione e della dimensione generale della crisi in atto a livello mondiale. In linea con questo ultimo obiettivo, occorre sviluppare il più possibile le sinergie tra le Università europee, in modo tale che, prima ed a prescindere dall’intervento dei legislatori nazionali, la diffusione e la circolazione dei modelli più virtuosi e più efficienti avvenga spontaneamente e come frutto della libera iniziativa delle istituzioni di formazione.
L’ultimo suggerimento costituisce piuttosto un auspicio: che qualsiasi nuovo intervento legislativo tenda a garantire un assetto possibilmente stabile, in grado di dare alle istituzioni universitarie quella chiarezza degli obiettivi e dei percorsi che costituisce presupposto essenziale per la loro attività.
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