Forum all’Unità sulle norme che limitano e controllano il mestiere del medico. Intervengono Ignazio Marino Antonio Guglielmino Maurizio Marceca e Adriana Turriziani
I rapporti tra una politica considerata troppo invasiva e i temi etici resi cruciali dalla velocità del progresso scientifico. Le difficoltà della professione sanitaria oggi in una società multirazziale, piena di paure, che una parte della politica cavalca per imporre nuove figure. Come il medico-spia, obbligato a denunciare i clandestini, o addirittura il “medico- assassino”, colui che, varato il ddl Calabrò, deciderà di staccare il sondino a un malato terminale. La scarsità, la disomogeneità territoriale e l’assenza di fondi per gli hospice in un Paese come l’Italia che pure punta a protrarre artificialmente la vita finché possibile.
All’Unità ne abbiamo discusso con Ignazio Marino, senatore del Pd e chirurgo; Antonino Guglielmino, ginecologo esperto in riproduzione assistita; Adriana Turriziani, radioterapista oncologa ed esponente della Società Cure Palliative; Maurizio Marceca, medico epidemiologo e della Sanità pubblica.
L’analisi di quattro tematiche – il biotestamento, la Legge 40, l’obbligo di denuncia dei clandestini per i medici, lo stato delle cure palliative – evidenzia un rapporto difficile tra politica e medicina. È davvero così?
Marino: «Esiste, ma non è un problema solo italiano. È oggettivo, legato allo sviluppo della scienza più rapido che nei secoli passati. Abbiamo impiegato centinaia di anni per definire la morte come cessazione del respiro, altri secoli per stabilire che invece è lo stop del battito cardiaco. Adesso si è morti con la cessazione irreversibile delle attività cerebrali. Ma è un dato molto recente, acquisito nel 1968. Il punto è che l’articolo 32 della Costituzione, che vieta trattamenti sanitari obbligatori, è stato scritto nel 1947 quando per il legislatore era scontato che le persone potessero a voce accettare o rifiutare una terapia. Basta considerare che il primo respiratore artificiale è arrivato solo nel ‘52 e i primi esperimenti sulla nutrizione artificiale sono degli anni ‘60. La velocità del progresso scientifico è superiore a quella di adeguamento del Parlamento e, forse, della società».
Marceca: «Il tema dell’immigrazione è importante perché diventa cartina tornasole di come il sistema sanitario reagisce ai mutamenti sociali e si configura in grado di reagire ai bisogni diffusi. L’approccio della politica è enfatico, allarmistico, parcellizzato. Per i cittadini è difficile agire sul processo decisionale influenzato dalle lobby. Ancor più lo è per la comunità di immigrati, che in realtà ne comprende diverse centinaia. A mio avviso la politica guarda alla salute come a uno spazio di potere, un mercato. I temi nascono dal nulla e scompaiono nel nulla. Adesso c’è l’allarme per la febbre suina che durerà qualche giorno, mentre dimentichiamo la scarsità di organi per i trapianti, la carenza di emoderivati, l’assistenza domiciliare negata da molte regioni. Da epidemiologo mi preoccupo di comunicare i problemi della salute secondo il loro peso specifico.
L’Italia nel modo in cui affronta questi temi può essere considerata un’anomalia?
Marino: «Certi Paesi come l’Italia sono più lenti. Negli Usa il testamento biologico è stato affrontato in tempi diversi. La California ha scritto la prima normativa nel 1976, un terzo di secolo fa. Da noi non è così. Uno strumento come il respiratore artificiale è positivo perché può consentire a chi ha un trauma cranico di essere operato e tornare alla vita di prima. A volte però il paziente finisce in un limbo senza possibilità di recupero e la legge non sa come intervenire. I medici lo saprebbero ma non possono perché un magistrato sarebbe obbligato a indagarli per omicidio volontario.
Guglielmino: «In questi ultimi anni le bio-tecnologie hanno fatto enormi passi in avanti, velocemente: in Italia l’approccio che la politica ha nei confronti delle tematiche legate al progresso scientifico è di grande invadenza. Il nostro paese è arrivato al dibattito – che prima era relegato alla sfera privata degli individui e che ora ha assunto contorni di carattere pubblico – in modo non adeguato. Non è un caso che in questi ultimi anni il tema della laicità dello Stato – che non è certo di oggi – sia tornato di attualità. Il punto è che non c’è un approccio laico».
Qual è il paese che da questo punto di vista è più attento quando si tratta di legiferare sui temi di inizio e fine vita?
Marceca : «È un paradosso che si debba guardare ad altri paesi. Alla fine degli anni Novanta è stata proprio l’Italia, con la legge Turco-Napolitano sull’immigrazione, ad essere un punto di riferimento per gli altri, equiparando gli stranieri residenti nel nostro Paese agli italiani.
Turriziani: «L’Inghilterra e gli Stati Uniti hanno avuto una grande intuizione: investire nella formazione. Qui da noi ancora oggi tutto il personale impiegato negli hospice ha come unica formazione quella che deriva dal proprio curriculum personale. Non esistono corsi ad hoc e non c’è una distribuzione uniforme su tutto il territorio rendendo così effettiva una diseguaglianza».
Marino: «Basta un esempio. Gli hospice sono 120: 103 sono al Nord, 17 al Sud. In Lombardia ce ne sono 50, in Sicilia, con una popolazione di 5 milioni di persone, ce ne sono 5. Il diritto alla salute sancito dalla Costituzione è evidentemente violato».
Come deve orientarsi il legislatore quando scrive una legge sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”?
Guglielmino: «Sulla legge 40 come sul testamento biologico la politica dovrebbe avere un approccio “leggero”, dettare linee generali, non scrivere leggi ideologiche. Il testo sulla fecondazione assistita, che prevede l’obbligo di trattamento sanitario, è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. È evidente che il punto di partenza era sbagliato.
Marino: «Credo sia giusto emanare leggi con poche norme chiare, ma dobbiamo tener presente che oggi, mentre parliamo, i reparti di terapia intensiva dei nostri ospedali sono pieni di pazienti non spiù in grado di decidere se continuare o meno le terapie. E già in questo momento un medico che decide di staccare il respiratore o interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale ad un paziente in fin di vita, con metastasi diffuse in tutto il corpo, sedato per non farlo soffrire troppo, infrange la legge. Invece la legge dovrebbe dare la possibilità ad ognuno di noi di decidere cosa fare della propria vita in casi simili. Una normativa giusta deve permettere a chiunque quando è nel pieno delle proprie facoltà intellettive di potersi esprimere sul fine vita avendo la certezza che le sue volontà saranno rispettate».
Spesso si dice “fare all’italiana”: vale a dire interrompere l’alimentazione artificiale senza pubblicizzarlo. Quello che, in sostanza, è stato rimproverato al padre di Eluana Englaro: “perché non se l’è portata a casa invece di creare questo putiferio?”. Succede così anche negli hospice? Si fa ma non si dice?
Turriziani: «Bisogna capire che chi arriva negli hospice è un paziente la cui evoluzione della malattia non possiamo contrastare. La morte arriverà: si tratta di mettere in campo un team in grado di attuare le scelte condivise tra medico e famiglia. La nutrizione viene adeguata e graduata rispetto al decorso della malattia. L’idratazione non viene sospesa anche per veicolare i farmaci. Il problema per noi è che la politica non ci offre luoghi di formazione: non esiste un esame universitario per le cure palliative, non ci sono infermieri specializzati».
È corretto dire che la desistenza terapeutica configura omicidio volontario?
Marino: «Il punto è che bisognerebbe avere un Parlamento che lavora in parallelo con il progresso della scienza. Il vero salto è stato quando con le tecnologie si è potuta protrarre l’esistenza in modo artificiale. Sospendere le terapie non è uccidere ma lasciare che il processo di morte naturale riprenda il suo corso. Sono decisioni da assumere in una vera alleanza con il paziente e, se non può esprimersi, con la famiglia. Non si può procedere come accade oggi nell’illegalità o facendo, appunto, le cose all’italiana».
Turriziani: «Per noi una cartella clinica ben redatta è uno strumento di bordo. Ed è multidisciplinare. Io ci scrivo tutto quello che è utile per quel paziente».
Marino: «Se il disegno di legge Calabrò verrà approvato, però, o la desistenza terapeutica non viene scritta in cartella o si verrà indagati per omicidio. Non colposo, volontario: come se si sparasse in testa a un cittadino».
Guglielmino: «La vera stranezza del ddl Calabrò è che né il medico né il paziente potranno più intervenire su alcune aree. C’è un aspetto che va chiarito: nutrizione e idratazione artificiali sono terapie o no? Se lo sono non si possono somministrare contro la volontà del destinatario perché si viola la Costituzione. E a mio avviso lo sono: non si può pensare che un buco nello stomaco, praticato da un chirurgo per inserire un sondino, necessario per sopravvivere, non sia una forma di cura».
Arriviamo ai medici “spia”: non c’è una contraddizione tra la paura di non riuscire a individuare malattie contagiose e, dall’altra parte, una norma che spinge alla clandestinità sanitaria?
Marceca: «La norma che impone la denuncia dei clandestini mostra come si mette in discussione il ruolo degli operatori della salute. Ai medici si chiede di denunciare persone che, dall’oggi al domani, diventano criminali. È assurdo creare dei “clandestini sanitari”. Solo l’effetto annuncio ha già prodotto ansia, paura, allontanamento dai servizi. Nessuno dice che in 13 anni questo sistema ha funzionato benissimo, e neppure la Bossi-Fini ha toccato norme che rispondono a esigenze di sanità pubblica. Anche se mi preoccupa l’approccio “dagli all’untore”. Le malattie non conoscono confini: riguardano la mobilità umana, non degli immigrati. Ricordo le sofferenze della comunità cinese ai tempi dell’aviaria: la nazionalità diventava elemento di discriminazione per persone che non tornavano in Oriente da anni. Temo che l’enfasi mediatica non aiuti il ragionamento bensì lo complichi».
È in Parlamento la legge sulle cure palliative e la regolamentazione degli hospice a livello nazionale. C’è un’attenzione reale della politica in un paese dove l’obiettivo sembra essere l’allungamento della vita ad ogni costo?
Turriziani: «Sarebbe auspicabile ascoltare chi ogni giorno piega la schiena sui pazienti. L’hospice non deve essere ultimo a livello di preparazione e formazione. Seguire malati terminali richiede grande competenza. Ed è enorme il significato sociale di queste strutture che assistono intere famiglie. Si va a morire, è vero, ma si vive fino alla fine. Bisogna promuovere un clima positivo, sostenerli culturalmente, evitare che diventino solo dei letti. Mi auguro che il lavoro svolto in questi anni negli hospice attraverso l’ascolto dei pazienti e dei familiari, venga tenuto nella debita considerazione dal legislatore che dovrà scrivere delle norme al riguardo».
Marino: «La competenza è cruciale. È stato un errore smembrare in due tronconi gli hospice e il biotestamento che per formazione e ricerca dovrebbero stare insieme. Poi, la Commissione Sanità non ha neppure audito gli oncologi».
La politica riuscirà a dialogare e trovare un punto di sintesi che rappresenti la società civile sul testamento biologico? E il Partito Democratico raggiungerà infine una posizione chiara sui temi etici?».
Marino: «Credo che serva un passo indietro rispetto all’arroganza attuale con cui si affrontano questi temi. Quanto al Pd: se non riesce a risolvere queste questioni con spirito maggioritario, discutendo al suo interno e votando sulla posizione da prendere, non avrà speranze. Scomparirà, fallirà: non può non dare risposte sui temi che scuotono le coscienze. Purtroppo oggi c’è una classe dirigente che fa riferimento ai due maggiori partiti che c’erano prima, che ragiona per quote e sta sempre a contarsi. Delle due l’una: o tutti costoro verranno spazzati via e si formerà un partito riformista, moderno, oppure sarà il Pd stesso ad essere spazzato via».
In Senato, durante il dibattito sul testamento biologico, il Pdl ha applaudito Marcello Pera, intervenuto contro la legge. Poi, però, ha votato compatto per il sì, malgrado dai sondaggi risulti che l’opinione pubblica vuole un testamento biologico vincolante. Perché la politica pensa di non dover rispondere di ciò che fa?
Marino: «Questo è il problema centrale: ormai si viene eletti per indicazione del leader e non per le proprie convinzioni. Il 25 febbraio del 2009 la Commissione Giustizia del Senato ha inviato un parere alla Commissione Sanità in cui affermava che il testamento biologico deve essere giuridicamente vincolante. La Commissione Sanità ha dovuto prenderne atto, ma in aula è cambiato tutto. Gli stessi membri della Commissione hanno votato contro il valore vincolante del testamento. Di fatto non hanno espresso un convincimento personale ma hanno risposto ad un ordine di partito. Siamo di fronte alla corruzione della politica, messa sotto ricatto da chi decide le candidature dei singoli».
Alla luce di queste nuove leggi, la professione del medico sta diventando un mestiere pericoloso nel nostro Paese? Sta nascendo la figura del “medico disobbediente”?
Marceca: «Il nostro è da sempre un mestiere complesso, ma nel caso della denuncia degli immigrati si sono scatenati degli anticorpi che sembravano sopiti. La Federazione degli Ordini dei medici, gli psicologi e gli infermieri hanno reagito compatti per far cambiare una norma che va contro tutti i nostri principi deontologici. Credo sia necessario, però, che si crei una forte alleanza tra medico e società e che i medici ricomincino a rendere conto di quello che fanno in modo trasparente perché ormai la sanità sembra preda di una deriva economicistica».
Guglielmino: «Quella del medico disobbediente è una posizione scomoda. I medici non possono essere costretti a compiere ogni giorno atti di “microcriminalità” perché la legge impedisce loro di fare il proprio mestiere secondo scienza e coscienza. È fondamentale alleggerire le norme garantendo la possibilità di fare questo mestiere senza essere costretti a scegliere tra il codice deontologico e la legge dello Stato».
Marino: «Credo sia giusto emanare leggi con poche norme chiare, ma dobbiamo tener presente che oggi, mentre parliamo, i reparti di terapia intensiva dei nostri ospedali sono pieni di pazienti non spiù in grado di decidere se continuare o meno le terapie. E già in questo momento un medico che decide di staccare il respiratore o interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale ad un paziente in fin di vita, con metastasi diffuse in tutto il corpo, sedato per non farlo soffrire troppo, infrange la legge. Invece la legge dovrebbe dare la possibilità ad ognuno di noi di decidere cosa fare della propria vita in casi simili. Una normativa giusta deve permettere a chiunque quando è nel pieno delle proprie facoltà intellettive di potersi esprimere sul fine vita avendo la certezza che le sue volontà saranno rispettate».
Spesso si dice “fare all’italiana”: vale a dire interrompere l’alimentazione artificiale senza pubblicizzarlo. Quello che, in sostanza, è stato rimproverato al padre di Eluana Englaro: “perché non se l’è portata a casa invece di creare questo putiferio?”. Succede così anche negli hospice? Si fa ma non si dice?
Turriziani: «Bisogna capire che chi arriva negli hospice è un paziente la cui evoluzione della malattia non possiamo contrastare. La morte arriverà: si tratta di mettere in campo un team in grado di attuare le scelte condivise tra medico e famiglia. La nutrizione viene adeguata e graduata rispetto al decorso della malattia. L’idratazione non viene sospesa anche per veicolare i farmaci. Il problema per noi è che la politica non ci offre luoghi di formazione: non esiste un esame universitario per le cure palliative, non ci sono infermieri specializzati».
È corretto dire che la desistenza terapeutica configura omicidio volontario?
Marino: «Il punto è che bisognerebbe avere un Parlamento che lavora in parallelo con il progresso della scienza. Il vero salto è stato quando con le tecnologie si è potuta protrarre l’esistenza in modo artificiale. Sospendere le terapie non è uccidere ma lasciare che il processo di morte naturale riprenda il suo corso. Sono decisioni da assumere in una vera alleanza con il paziente e, se non può esprimersi, con la famiglia. Non si può procedere come accade oggi nell’illegalità o facendo, appunto, le cose all’italiana».
Turriziani: «Per noi una cartella clinica ben redatta è uno strumento di bordo. Ed è multidisciplinare. Io ci scrivo tutto quello che è utile per quel paziente».
Marino: «Se il disegno di legge Calabrò verrà approvato, però, o la desistenza terapeutica non viene scritta in cartella o si verrà indagati per omicidio. Non colposo, volontario: come se si sparasse in testa a un cittadino».
Guglielmino: «La vera stranezza del ddl Calabrò è che né il medico né il paziente potranno più intervenire su alcune aree. C’è un aspetto che va chiarito: nutrizione e idratazione artificiali sono terapie o no? Se lo sono non si possono somministrare contro la volontà del destinatario perché si viola la Costituzione. E a mio avviso lo sono: non si può pensare che un buco nello stomaco, praticato da un chirurgo per inserire un sondino, necessario per sopravvivere, non sia una forma di cura».
Arriviamo ai medici “spia”: non c’è una contraddizione tra la paura di non riuscire a individuare malattie contagiose e, dall’altra parte, una norma che spinge alla clandestinità sanitaria?
Marceca: «La norma che impone la denuncia dei clandestini mostra come si mette in discussione il ruolo degli operatori della salute. Ai medici si chiede di denunciare persone che, dall’oggi al domani, diventano criminali. È assurdo creare dei “clandestini sanitari”. Solo l’effetto annuncio ha già prodotto ansia, paura, allontanamento dai servizi. Nessuno dice che in 13 anni questo sistema ha funzionato benissimo, e neppure la Bossi-Fini ha toccato norme che rispondono a esigenze di sanità pubblica. Anche se mi preoccupa l’approccio “dagli all’untore”. Le malattie non conoscono confini: riguardano la mobilità umana, non degli immigrati. Ricordo le sofferenze della comunità cinese ai tempi dell’aviaria: la nazionalità diventava elemento di discriminazione per persone che non tornavano in Oriente da anni. Temo che l’enfasi mediatica non aiuti il ragionamento bensì lo complichi».
È in Parlamento la legge sulle cure palliative e la regolamentazione degli hospice a livello nazionale. C’è un’attenzione reale della politica in un paese dove l’obiettivo sembra essere l’allungamento della vita ad ogni costo?
Turriziani: «Sarebbe auspicabile ascoltare chi ogni giorno piega la schiena sui pazienti. L’hospice non deve essere ultimo a livello di preparazione e formazione. Seguire malati terminali richiede grande competenza. Ed è enorme il significato sociale di queste strutture che assistono intere famiglie. Si va a morire, è vero, ma si vive fino alla fine. Bisogna promuovere un clima positivo, sostenerli culturalmente, evitare che diventino solo dei letti. Mi auguro che il lavoro svolto in questi anni negli hospice attraverso l’ascolto dei pazienti e dei familiari, venga tenuto nella debita considerazione dal legislatore che dovrà scrivere delle norme al riguardo».
Marino: «La competenza è cruciale. È stato un errore smembrare in due tronconi gli hospice e il biotestamento che per formazione e ricerca dovrebbero stare insieme. Poi, la Commissione Sanità non ha neppure audito gli oncologi».
La politica riuscirà a dialogare e trovare un punto di sintesi che rappresenti la società civile sul testamento biologico? E il Partito Democratico raggiungerà infine una posizione chiara sui temi etici?».
Marino: «Credo che serva un passo indietro rispetto all’arroganza attuale con cui si affrontano questi temi. Quanto al Pd: se non riesce a risolvere queste questioni con spirito maggioritario, discutendo al suo interno e votando sulla posizione da prendere, non avrà speranze. Scomparirà, fallirà: non può non dare risposte sui temi che scuotono le coscienze. Purtroppo oggi c’è una classe dirigente che fa riferimento ai due maggiori partiti che c’erano prima, che ragiona per quote e sta sempre a contarsi. Delle due l’una: o tutti costoro verranno spazzati via e si formerà un partito riformista, moderno, oppure sarà il Pd stesso ad essere spazzato via».
In Senato, durante il dibattito sul testamento biologico, il Pdl ha applaudito Marcello Pera, intervenuto contro la legge. Poi, però, ha votato compatto per il sì, malgrado dai sondaggi risulti che l’opinione pubblica vuole un testamento biologico vincolante. Perché la politica pensa di non dover rispondere di ciò che fa?
Marino: «Questo è il problema centrale: ormai si viene eletti per indicazione del leader e non per le proprie convinzioni. Il 25 febbraio del 2009 la Commissione Giustizia del Senato ha inviato un parere alla Commissione Sanità in cui affermava che il testamento biologico deve essere giuridicamente vincolante. La Commissione Sanità ha dovuto prenderne atto, ma in aula è cambiato tutto. Gli stessi membri della Commissione hanno votato contro il valore vincolante del testamento. Di fatto non hanno espresso un convincimento personale ma hanno risposto ad un ordine di partito. Siamo di fronte alla corruzione della politica, messa sotto ricatto da chi decide le candidature dei singoli».
Alla luce di queste nuove leggi, la professione del medico sta diventando un mestiere pericoloso nel nostro Paese? Sta nascendo la figura del “medico disobbediente”?
Marceca: «Il nostro è da sempre un mestiere complesso, ma nel caso della denuncia degli immigrati si sono scatenati degli anticorpi che sembravano sopiti. La Federazione degli Ordini dei medici, gli psicologi e gli infermieri hanno reagito compatti per far cambiare una norma che va contro tutti i nostri principi deontologici. Credo sia necessario, però, che si crei una forte alleanza tra medico e società e che i medici ricomincino a rendere conto di quello che fanno in modo trasparente perché ormai la sanità sembra preda di una deriva economicistica».
Guglielmino: «Quella del medico disobbediente è una posizione scomoda. I medici non possono essere costretti a compiere ogni giorno atti di “microcriminalità” perché la legge impedisce loro di fare il proprio mestiere secondo scienza e coscienza. È fondamentale alleggerire le norme garantendo la possibilità di fare questo mestiere senza essere costretti a scegliere tra il codice deontologico e la legge dello Stato».
Due novità sul fronte della Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Una è contenuta nelle linee guida emanate dall’ex ministro della Salute Livia Turco nel 2008, che rispetto alle precedenti del luglio 2004, prevedono sia la possibilità di effettuare la diagnosi preimpianto dell’embrione prima vietata, sia la possibilità di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma) anche per le coppie in cui l’uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili, in particolare virus HIV ed Epatiti B e C, riconoscendo che tali condizioni sono assimilabili ai casi di infertilità. L’altra grande novità è la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato parzialmente illegittima la Legge 40, soprattutto per quanto riguarda l’obbligo di limitare a tre il numero di embrioni e di impiantarli tutti in utero.
Dopo il caso Englaro, la maggioranza di centrodestra ha approvato al Senato e passato alla Camera una legge sulle «dichiarazioni anticipate di trattamento» in cui, partendo dal presupposto della indisponibilità della vita, sostiene che nessuno può morire di fame e di sete e, dunque, obbliga il medico ad alimentare e a idratare anche artificialmente (tramite l’impianto di un sondino) un paziente non più in grado di esprimere la propria volontà. Il testo approvato viene considerato da molti bioeticisti e dal centrosinistra quasi al completo un vero e proprio tradimento dell’idea stessa di “testamento biologico”: viene sottratta al paziente la possibilità di rifiutare un trattamento sanitario, un diritto riconosciuto dalla legge italiana e dalle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo. La destra sostiene che alla Camera il testo sarà rivisto.
La Lega ne aveva fatto una bandiera della propria azione politica. Il ministro degli Interni, Maroni, lo aveva inserito come punto qualificante del Decreto sicurezza: l’immigrazione clandestina è un reato e i medici avrebbero dovuto denunciare gli immigrati non in regola che si fossero presentati in ospedale a chiedere di essere curati. I medici sono insorti. E hanno scritto una bella pagina di civiltà. Non vogliamo e non possiamo fare i delatori, hanno detto. Ce lo impedisce il nostro codice deontologico. E anche il normale buon senso. Se i clandestini, per timore di subire guai giudiziari, non si fanno curare, mettono a repentaglio la propria salute e quella dell’intera comunità nazionale. Maroni ha ritirato il decreto. Secondo la Cgil l’annuncio della misura ha comunque provocato un effetto: gli immigrati che hanno richiesto cure sono calati del 10-20%.
I medici e la rianimazione
Il Senato approva una legge in cui nessuno può interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale di pazienti in stato vegetativo permamente (come Eluana Englaro). Più o meno nello stesso periodo una ricerca dell’Istituto Mario Negri di Milano rivela che il 62% dei decessi nelle rianimazioni italiane sono dovuti a “desistenza terapeutica”, un intervento attivo del medico che, insieme ai parenti o, in alcuni casi, autonomamente, decide di sospendere ogni cura perchè questa non potrebbe cambiare in alcun modo l’esito naturale della malattia. Una legge dice una cosa, la realtà ne racconta un’altra. Da una parte si impone di insistere, dall’altra si sceglie di “desistere”.
L’Unità, 28 aprile 2009