Nello scorso novembre, come noto, la Corte di Giustizia Europea ha condannato l’Italia all’equiparazione dell’età pensionabile fra uomini e donne, ritenendo una discriminazione di genere la possibilità, offerta alle sole donne, di potersi pensionare per vecchiaia a 60 anziché a 65 anni. Le motivazioni della sentenza – che, si noti, si riferisce unicamente ai lavoratori del pubblico impiego (ovvero agli iscritti all’INPDAP) – discendono dal fatto che la Corte ha interpretato il regime INPDAP come professionale, ovvero al pari di un fondo occupazionale organizzato dal datore di lavoro (in questo caso lo Stato) per i suoi dipendenti. Ritenendo quindi la pensione come parte della retribuzione, l’Italia è stata giudicata inadempiente nel “garantire parità di retribuzione tra lavoratori di sesso diverso per lavori di pari valore”. La sentenza della Corte non si applica, invece, ai lavoratori iscritti ai cosiddetti regimi legali (ovvero le diverse gestioni dell’INPS): gli Stati Membri sono infatti liberi di scegliere regole previdenziali differenziate per i lavoratori iscritti a tali regimi.
Alla luce di questa sentenza, di cui non si intende valutare le, pur discutibili, motivazioni, in Italia si è acceso un intenso dibattito sull’opportunità e la convenienza di uniformare l’età di pensionamento di vecchiaia, in primo luogo nel pubblico impiego (per rispettare le indicazioni della Corte) e, in generale, per la totalità dei lavoratori.
In particolare da più parti (in primis da parte dello stesso Ministro della Funzione Pubblica) si è ritenuto che la Corte evidenziasse una discriminazione a svantaggio delle donne e si è indicato l’incremento dell’età pensionabile come misura necessaria per porre fine a tale svantaggio che costringerebbe le donne a ritirarsi prima e, quindi, a ricevere una pensione di importo minore. Tale posizione appare tuttavia non condivisibile per numerose ragioni.
In primo luogo va osservato che la Corte non parla di discriminazione a discapito delle donne, ma, semplicemente, ritiene le età differenziate incompatibili con la disciplina sull’assenza di discriminazione di genere; uniformare a 60 anni l’età pensionabile di uomini e donne rispetterebbe quindi ugualmente il dettato della sentenza.
Va poi sottolineato che ritirarsi a 60 anni costituisce per le donne una possibilità e non un vincolo. Le donne, sia nel settore pubblico che in quello privato, hanno infatti assoluta facoltà di poter scegliere di continuare a lavorare fino al compimento dei 65 anni e, come dimostrano gli stessi dati forniti dalla Commissione di Studio istituita presso il Ministero della Funzione Pubblica, un elevato numero di lavoratrici nel pubblico impiego si ritira per vecchiaia ben oltre i 60 anni. In questa ottica (quella da cui più probabilmente, e in maniera meno strumentale, andrebbe letta la sentenza della Corte) la discriminazione agirebbe quindi a discapito degli uomini, a cui è impedito un pensionamento più precoce su base volontaria.
D’altronde la differenziazione di genere dell’età di vecchiaia in Italia è storicamente motivabile, oltre che dall’eventuale volontà di compensazione del maggior carico di lavoro domestico e di cura svolto dalla forza lavoro femminile – dall’esigenza di uniformare le età effettive di uscita dal lavoro di donne e uomini. Questi ultimi infatti godendo solitamente di anzianità contributive ben maggiori – anche grazie alla minor frammentarietà della loro carriera lavorativa – raggiungono i requisiti per il pensionamento di anzianità ben prima dei 65 anni, laddove la minor anzianità contributiva media delle donne costringerebbe molte di loro a ritirarsi unicamente raggiunti i limiti per la vecchiaia.
Il pensionamento anticipato non può essere considerato un danno neppure dal punto di vista dell’entità della pensione anticipata. Al di là del fatto che, come detto, ritirarsi a 60 anni costituisce una libera scelta anziché un obbligo, essendo, come noto, nel sistema retributivo la prestazione slegata dall’età in cui ci si ritira, l’incremento di beneficio derivante dal posticipo del pensionamento è limitato (il tasso di sostituzione cresce, all’incirca, di 2 punti per ogni anno aggiuntivo di contribuzione). D’altronde, posizioni che ritengono discriminatorio potersi (e non doversi!) ritirare prima appaiono paradossali: una delle motivazioni principali a favore del passaggio allo schema contributivo è infatti consistita proprio nella necessità di inserire regole di calcolo della pensione che incentivassero la prosecuzione della vita lavorativa, dato che si ritiene che il retributivo (generando di fatto un’elevata tassa implicita sul salario di chi preferisce posporre il pensionamento) comporti un vantaggio non equo in termini attuariali a favore di chi si ritira ad età più precoci.
Da più parti si è d’altronde sostenuto che sia sbagliato offrire alle donne la possibilità di ritirarsi prima come compensazione delle maggiori difficoltà (se non discriminazioni) da loro subite nella vita lavorativa, che impediscono loro di raggiungere anzianità contributive simili a quelle degli uomini. E’ ovvio che in un mondo ideale le differenze andrebbero corrette laddove si formano, ma la complessità delle cause (anche di natura culturale da parte sia di chi offre lavoro, sia, soprattutto, di chi lo domanda) alla base delle diverse opportunità lavorative di uomini e donne sono troppo profonde dal poter pensare che basterebbe un adeguato utilizzo dei risparmi di spesa ottenuti dall’innalzamento dell’età pensionabile – destinandoli magari al finanziamento di quel sistema universale di servizi di cura a bambini ed anziani di cui il nostro welfare è assolutamente carente – per eliminare rapidamente tali differenze.
Per avere un quadro sintetico della dimensione dei differenziali di genere in Italia basti pensare che, da stime econometriche sui redditi del 2005 rilevati dall’ISTAT condotte controllando per numerose caratteristiche osservabili dei lavoratori (settore, dimensione di impresa, tipologia contrattuale, titolo di studio, qualifica, stato civile, numero di figli), si osserva un differenziale salariale fra donne e uomini pari al 17%. Le donne risultano inoltre occupate in misura significativamente maggiore rispetto agli uomini con contratti instabili e hanno una minore probabilità di stabilizzarsi in un lavoro a tempo indeterminato.
L’esigenza di incrementare su base obbligatoria l’età pensionabile delle lavoratrici appare pertanto dettata, più che dalla volontà di correggere presunte discriminazioni a discapito delle donne, principalmente dall’esigenza di ottenere nel breve periodo risparmi di spesa. Va d’altronde evidenziato che, ipotesi come quelle circolate in questi giorni di incremento graduale dell’età (1 anno ogni 2, fino ad ottenere quindi un’equiparazione a regime nel 2018) comporterebbero risparmi di spesa limitati ed entrerebbero a regime in un periodo in cui il flusso di nuovi pensioni conterrebbe una quota significativa calcolata con il metodo contributivo, in base al quale il proseguimento dell’attività lavorativa non comporta vantaggi sul bilancio pubblico (a età più avanzate corrispondono, in misura proporzionalmente eguale, maggiori entrate e uscite).
Come per ogni questione riguardante le prospettive del sistema previdenziale italiano, bisogna quindi distinguere le situazioni degli iscritti al retributivo e al contributivo. Per questi ultimi, andrebbe ad esempio recuperata la flessibilità dell’età pensionabile che, coerentemente con la logica del contributivo, era stata introdotta dalla riforma del 1995 per poi essere inspiegabilmente cancellata dalla riforma del 2004.
Nel nuovo regime d’altronde si manifesterà un problema dal lato dell’adeguatezza delle prestazioni, soprattutto per i lavoratori con carriere meno remunerate o con maggiori interruzioni (anche a causa della limitata copertura figurativa per i periodi di non lavoro, magari causati da esigenze di cure assistenziali) o con numerosi anni lavorati da parasubordinati (a causa dell’aliquota ridotta cui sono soggetti tali lavoratori). Basandosi su criteri di equità attuariale fra versamenti e prestazioni, il sistema contributivo costituisce infatti essenzialmente uno specchio di quanto accade sul mercato del lavoro. E le donne appaiono svantaggiate lungo tutte queste dimensioni dato che, come detto, ricevono minori salari, hanno carriere più brevi, con maggiori interruzioni (a causa di un maggior rischio di disoccupazione e della più frequente esigenza di sostituire il lavoro con la fornitura di assistenza ai parenti) e con un maggior numero di anni da parasubordinati.
In riferimento alla situazione che si realizzerà una volta entrato in vigore lo schema contributivo, alcuni autori ritengono invece criticabile il fatto che, basandosi su coefficienti di trasformazione uguali per uomini e donne, tale schema redistribuirà a vantaggio delle donne (che, come noto, godono di una maggiore longevità) e propongono, pertanto, di differenziare per genere i coefficienti (e di ridurre quindi, ceteris paribus, le prestazioni pagate alle ex lavoratrici). L’idea alla base di questa posizione è, nuovamente, che i gender gaps andrebbero eliminati sul mercato del lavoro, anziché essere compensati in età avanzata attraverso l’utilizzo di coefficienti indifferenziati per sesso.
Anche in questo caso va tuttavia osservato come l’uniformità dei coefficienti consente una compensazione molto parziale dei differenziali molto ampi che si generano sul mercato del lavoro, persistendo i quali la diversificazione dei coefficienti di trasformazione si concreterebbe quindi in un ulteriore ampliamento delle complessive diseguaglianze di genere.
Applicare uno schema contributivo non implica d’altronde affatto che il sistema pubblico, per una scelta di carattere normativo, non possa prevedere (magari attraverso la formula di calcolo dei coefficienti) degli espliciti flussi redistributivi, in questo caso dagli uomini alle donne (o prevedere, ad esempio, elementi di progressività nella definizione dei rendimenti pagati sui contributi versati, o l’estensione delle contribuzioni figurative a favore di determinate categorie).
D’altro canto, mettere in discussione l’idea di applicare coefficienti omogenei per tutta la popolazione implicherebbe di riconsiderare attentamente ogni tipo di flusso redistributivo generato dall’applicazione di coefficienti uguali per tutta la popolazione (si ricordi che i coefficienti sono costruiti sulla base del numero di anni in cui in media si riceverà una pensione, inclusa la probabilità di ottenere una rendita di reversibilità): l’attuale normativa implica ad esempio una redistribuzione dai non sposati agli sposati e, in generale, a favore di chi ha una maggiore longevità e, quindi, – grazie all’accesso a migliori cure e ad una maggiore capacità di prevenzione – a favore dei più abbienti. La diversificazione dei coefficienti potrebbe allora comportare un’inevitabile tendenza verso una loro definizione in funzione di caratteristiche di gruppi di popolazione sempre più ristretti. E tale tendenza richiederebbe allora un’approfondita riflessione su cosa si intende per sistema previdenziale pubblico, dato che l’individualizzazione del sistema sarebbe in forte contrasto con l’idea di assicurazione sociale alla base di ogni sistema pubblico di welfare.