Il Fondo Monetario Internazionale ci ha ricordato ieri che è bene sperare che il peggio della crisi sia alle spalle, ma che è saggio prepararsi ad una crisi lunga e difficile.
I fattori di instabilità che hanno dato vita alla recessione globale sono ancora tutti lì. La stima aggiornata delle minusvalenze del sistema finanziario internazionale è di 4.000 miliardi di dollari, di cui 2.700 negli Stati Uniti (500 in più di quanti stimati a gennaio sempre dal Fondo). Queste perdite non potranno essere occultate dalla cosmesi contabile, dalle operazioni di abbellimento dei conti di banche e imprese avviate in grande stile oltreoceano. L’eccesso di indebitamento delle banche e, più in generale, del settore privato negli Stati Uniti è stato solo in minima parte riassorbito e questo poco è stato per lo più trasformato in debito pubblico.
Continuerà, dunque, a lungo il deleveraging, la riduzione della leva finanziaria che aveva portato le banche commerciali americane a prestare fino a 50 dollari per ogni dollaro di capitale posseduto. Come anticipato nei giorni scorsi da Martin Feldstein sul Financial Times, questo processo di riduzione della leva avverrà in gran parte attraverso un aumento dell’inflazione, il metodo più classico per ridurre il valore reale del debito. Soffrono i creditori quando aumentano i prezzi, gongolano i debitori. Bene ricordarselo nell’interpretare i cori di chi oggi chiede più inflazione.
Per l’Europa i rischi più seri vengono comunque dall’Est. Quel poco di deleveraging sin qui avvenuto ha principalmente riguardato gli impegni delle banche in altri paesi. Le economie emergenti dell’ex blocco sovietico, già fortemente indebitate, si sono trovate di colpo a soffrire un forte deflusso di capitali e un deprezzamento delle loro valute che ha fatto esplodere il debito estero, spesso denominato in euro. I “titoli tossici” delle nostre banche sono in questa forte esposizione al rischio che viene dall’Est: il sistema bancario di questi paesi è in gran parte posseduto da banche austriache, italiane, tedesche e svedesi.
Oltre all’intervento immediato del Fondo Monetario per fronteggiare le crisi di bilancia dei pagamenti, la via d’uscita sarà in questo caso in un più rapido ingresso di questi paesi nell’area dell’Euro, a tassi di cambio che non pregiudichino le loro prospettive di crescita. Anche qui, comunque, ci vorrà del tempo.
Per questo è molto, molto, pericoloso continuare a scommettere su un’uscita rapida dalla crisi. L’ottimismo sparso a piene mani in questi giorni dal nostro Ministro dell’Economia sembra uno scongiuro di chi ha scelto sin qui di non scegliere, tenendo i saldi congelati alla manovra concepita prima della crisi, puntando tutto su una imminente ripresa economica. Ci auguriamo tutti che questa scommessa azzardata sia vinta, che si esca presto dalla crisi. E vorremmo tanto che Tremonti avesse ragione quando sostiene che “non è un problema trovare i soldi per la ricostruzione” e per le altre misure urgenti. Ma le proiezioni del nostro debito pubblico contenute nel rapporto del Fondo Monetario (salirà nel 2010 al 121 per cento del prodotto interno lordo, sui livelli più alti toccati nel Dopoguerra) stanno lì a testimoniare che le risorse in questo momento non sono scarse, sono scarsissime.
Per questo il Ministro dell’Economia ha il dovere di fare ora, subito, un’operazione trasparenza sui nostri conti pubblici e dirci come intende rivedere le priorità della propria politica economica alla luce dell’esigenze di ricostruzione delle aree colpite dal sisma. Non è più rinviabile, in particolare, la pubblicazione della Relazione Unificata sull’Economia e la Finanza per il 2009, prevista per legge entro il mese di marzo. Questa relazione non dovrà essere reticente perché da una crisi di fiducia si esce solo con più trasparenza. Come nel caso delle banche americane, l’opacità nei bilanci può servire al massimo a guadagnare qualche giorno, ma poi rischia di scatenare crisi di sfiducia ben più gravi. Importante che in questa operazione verità il Ministro chiarisca ciò che intende fare nel contrasto all’evasione fiscale.
Sono le entrate dello stato oggi ciò che più preoccupa chi intende acquistare i nostri titoli di stato. Le entrate tributarie sono calate nei primi due mesi del 2009 del 7,2 per cento, quasi il doppio di quanto ci si sarebbe aspettati alla luce dell’andamento dell’economia. Bene, allora, essere convincenti su questo punto. Siamo in recessione e non possiamo permetterci nuove tasse, ma non possiamo neanche permetterci di abbassare la guardia nel contrasto all’evasione fiscale. Bene anche che si dica, come farebbe qualsiasi buon amministratore di società di fronte ad un’emergenza, quanto costerà la ricostruzione e come si intende davvero finanziarla. Non è credibile dichiarare che le risorse verranno dagli “enti previdenziali che in Italia hanno il dovere di investire in edifici pubblici e privati”. Quegli stessi enti previdenziali stanno oggi già ricomprando gli edifici che dovevano essere venduti con la cartolarizzazione degli immobili pubblici, varata nel 2002 quando era sempre lui, Tremonti, alla scrivania di Quintino Sella.
La Repubblica, 22 aprile 2009