Sul mercantile-lazzaretto Al largo di Lampedusa. “Potevamo finire tutti in un sacco”. La nigeriana Maha: «Cinque giorni in mare dopo la sosta in Libia. La mia vita da due mesi è deserto e acqua»
LAMPEDUSA – Ecco la fiancata blu con la torretta bianca del Pinar. Eccoci a venti miglia da Lampedusa, sotto il cargo respinto per quattro giorni da Italia e Malta. Ecco i 140 clandestini che s’affacciano agitandosi dalle ringhiere di prua, correndo poi verso poppa, come se volessero quasi lanciarsi sul guardacoste della Guardia di Finanza con cui ci affianchiamo sotto bordo alle cinque della sera. Un mare incattivito dalle sferzate del vento sballottola anche la motovedetta della Capitaneria di porto che è arrivata carica di casse d’acqua e scatole di biscotti. L’essenziale per assetati costretti per due giorni a bere acqua di mare. Le onde impediscono a lungo l’allineamento. C’è calca sulla scaletta che scivola giù lungo la fiancata del Pinar. Bisogna portare su i viveri e invece una ventina di ragazzi più forti di altri vorrebbero precipitarsi sotto, trattenuti a stento dal comandante che fa scudo e dalle voci dei militari che gridano di non scendere. Un mezzo della Capitaneria è il primo ad agganciare la scaletta. Salgono a bordo i primi due medici dei Cavalieri di Malta. Seguendo altri quattro colleghi già in coperta. Folate di un fetore acido avvolgono questa balena d’acciaio che si porta dietro anche il cadavere di una donna incinta, morta prima che i clandestini fossero soccorsi dal Pinar, al centro di un orizzonte senza fine.
E chi monta su turandosi il naso scopre due ragazzi che tremano con la febbre alta, stretti insieme sotto una coperta bagnata, un’altra donna incinta con gli occhi sgranati nell’affanno di una paura che non riesce a frenare, un paio di uomini con la varicella, decine di ragazzi smunti e disidratati come i 140 disperati che i due medici del gruppo Cavalieri di Malta provano subito a controllare e rasserenare. Dopo le prime pillole e le prime cure da pronto soccorso, è una giovane e determinata dottoressa, Elisa Mariani, a impossessarsi del telefono di bordo. E Asik Tuygun, il comandante del mercantile battente bandiera panamense, glielo cede volentieri in cabina comando perché dall’altra parte ad ascoltare c’è il prefetto Mario Morcone, che al Viminale guida il Dipartimento Immigrazione. È dal cuore del Mediterraneo che echeggia l’appello rimbalzato sul Viminale: «Questo è un lazzaretto, troppi malati, troppe donne a rischio, non si può perdere un minuto, bisogna salvare questi uomini…». E via con la descrizione di febbri, varicelle e scabbia, coliche addominali e allucinazioni. Una realtà cruda sintetizzata come in un bollettino di guerra dalla dottoressa mora e slanciata, arrivata quassù con le colleghe Elena Hector e Lia Marconi dell’Istituto per l’immigrazione e la povertà, e con un quarto dottore di un’altra associazione, la «Lampedusa accoglienza». Ascolta Morcone referti e «bollettino», incassa le critiche per niente celate sui ritardi e raccomanda di stilare «un rapporto dettagliatissimo».
«Ma che bisogno c’è di rapporti e relazioni ufficiali, dopo tre giorni di telefonate e appelli», si danna Tuygun, tarchiato e robusto, i capelli lunghi sulle spalle, nervoso e d’un colpo pensieroso con i giornalisti a bordo: «Ma io avrei potuto fare più di quanto ho fatto?». Un quesito pietoso sussurrato su questa umanità da calvario pasquale, una teoria di capi ripiegati, corpi quasi immobili, donne e uomini sfiniti. Come Maha, una delle 37 donne a bordo, nigeriana, esausta: «Cinque giorni in balia del mare, dopo la sosta in Libia. La mia vita da due mesi è deserto e acqua. Basta». È l’invocazione di Nazir, un ventenne che le sta vicino: «Ci danno da bere, qualche biscotto, ma vogliamo solo arrivare a terra». E Sarah, trent’anni, stravolta, arrivata dal Sudan. Scruta l’interlocutore e ha la forza di alzare un dito verso l’orrore: «Vedi quel sacco bianco? Poteva esserci chiunque di noi là dentro». È la sacca funerea che contiene il corpo della donna lasciata fino a ieri sera su una scialuppa di salvataggio, una sorta di bara che per giorni ha attratto gabbiani come fossero corvi. Guardati con terrore mentre volteggiavano da Agum Mogushi, diciotto anni, nigeriano, a piedi nudi come tanti, l’espressione assente, gli occhi sgranati nel vuoto, una frase ripetuta con un accidentato inglese come una litania: «Perché ci state lasciando qui, perché ci state lasciando qui?».
È lo stesso interrogativo che riecheggia in ogni angolo di questo immondo corridoio dove ci sono appena 4 bagni e dove l’arrivo delle motovedette sotto bordo accende la corsa a chi può fuggire via. Non sanno che in serata le telefonate al Viminale e gli appelli lanciati a Roma e Bruxelles faranno dirottare il Pinar verso Porto Empedocle e tanti, troppi vorrebbero correre verso quei mezzi che il mare fa ballare sotto i loro occhi. Ma è il comandante del «G104 Apruzzi» con cui siamo arrivati, il maresciallo Giovanbattista Ortu, a gridare che non si possono fare trasbordi. E grida pure il comandante della motovedetta della Capitaneria di porto, Vincenzo Colella: «Non possiamo farli scendere tutti». Per questo Tuygun prova a fare scudo, a bloccare i più forti, ad avvantaggiare i dieci che i medici ritengono gravissimi e che bisogna soccorrere portandoli subito a Lampedusa. Il primo carico trasferito giù, però, è quel sacco bianco calato in un improvviso spettrale silenzio. Dentro c’è il corpo di una ragazza di vent’anni, bellissima, come diranno nella notte i medici all’obitorio di Lampedusa, senza riuscire a dare un nome, a rintracciarne la nazionalità.
La scaletta che porta ai mezzi si riempie subito dopo di medici, marinai e disperati senza forze, tanti portati quasi in braccio, confusi fra altri che pressano. Per tre volte la motovedetta della salvezza s’infrange contro la fiancata del mercantile col rischio che qualcuno venga inghiottito dal mare. Poi saranno in venti a conquistare la via di fuga, un salto, il trasbordo. Quasi tutti immobili poi per un’ora di navigazione, gli occhi perduti su quel cargo divenuto un puntino perduto fra le acque, mentre s’avvicinavano le luci di Lampedusa. C’è Said che avrà bisogno della sedia a rotelle, come altri avvolti in coperte termiche ed altri ancora trasportati d’urgenza in barella al poliambulatorio, dove le forze di polizia faranno scudo per impedire ai giornalisti rimasti in attesa nell’isola di rendersi conto del disastro provocato dai quattro giorni di incertezza. Ultimo imbarazzante epilogo di una storia che per il resto sarà raccontata alle prime luci dell’alba, quando i naufraghi scorgeranno il profilo delle ciminiere di Porto Empedocle sbarcando nella città di Pirandello dalla corvetta della Marina sulla quale a tarda sera si è deciso di trasferirli perché più attrezzata e per consentire al Pinar di riprendere rotta verso la Tunisia. In 120 approdano così a due passi da Agrigento da dove ieri era partito l’appello del vescovo Francesco Montenegro, deciso ad invocare l’immediato soccorso sulla terra ferma: «Non si perda altro tempo, portateli in Sicilia».
Felice Cavallaro, Alfio Sciacca, Corriere della Sera del 20 aprile 2009