Il bene comune, dopo una lunga eclissi, è riemerso. Tracimato, in modo prorompente. Se ne erano perdute le tracce, da qualche tempo, in Italia. La tragedia del terremoto in Abruzzo l´ha fatto uscire dagli anfratti del non-detto, dove era nascosto da molti anni. Da quando – in economia, in politica, nello spettacolo, ma anche nei rapporti con gli altri – per avere successo, per apparire credibili in pubblico era divenuto conveniente apparire “cattivi”. E quindi inflessibili, intolleranti. Nonché discretamente egoisti. Attenti anzitutto al proprio interesse. Sicuramente diffidenti verso qualsiasi “bene in comune”, soprattutto se “pubblico”. In nome del trionfo del mercato, del privato, della competizione. Impossibili dirsi “buoni” senza essere tacciati di “buonismo”. Malattia senile della solidarietà. Marchio di un´epoca passata. Da rimuovere. Così gli italiani si sono trovati a vivere la loro “bontà” e il loro “altruismo” in modo quasi clandestino. Nonostante il loro spirito solidale e comunitario, coltivato da identità radicate, come quella cattolica e socialista. Bollate, a loro volta, nel segno – spregiativo – del catto-comunismo. Per cui oltre metà degli italiani hanno continuato a dedicare tempo, denaro e soprattutto impegno personale agli “altri”, in modo continuo e regolare. Ma in silenzio. Come un vizio inconfessabile. Comunque da non dichiarare in pubblico. Per farsi apprezzare dai cittadini, l´uomo pubblico doveva apparire uno sceriffo, un vigilante, una ronda a tempo pieno. Perché la bontà e la solidarietà apparivano vizi privati. Che non facevano notizia, audience. Spettacolo. E sono stati, per questo, a lungo emarginati dai media. Ridotti in spazi minimi e dedicati. Come le rubriche per camionisti o i programmi sugli stranieri. Lo spazio del bene comune. Trasmesso alle 6 di mattina alla domenica e in replica alle 4 di notte.
Il terremoto, la tragedia immensa che ha colpito la popolazione dell´Abruzzo due settimane fa, ha sconvolto – insieme alla vita di migliaia di persone – anche la “gerarchia dei valori” e dei sentimenti. Il “male comune” ha risvegliato il “bene comune”. O meglio: gli ha restituito dignità pubblica, visto che nel privato non aveva mai smesso di essere frequentato, dagli italiani. Abbiamo, anzi, assistito e stiamo assistendo, in questi giorni, a un significativo rovesciamento di prospettiva. Che ha posto – e anzi: imposto – il bene comune come cifra di lettura di ogni manifestazione, di ogni comportamento. Nulla di sorprendente, sia chiaro. Le difficoltà comuni sollecitano risposte comuni. Le emergenze stimolano convergenze. La disperazione sollecita la cooperazione. E insieme: la solidarietà e la pietà. Comunità, pietà, solidarietà, cooperazione; e ancora; carità, altruismo, soccorso. Parole quasi indicibili fino a ieri: sono tornate di moda. Sulla bocca di tutti. Pronunciate ad alta voce e non piano piano, per timore che qualcuno ci senta. Evocano il repentino passaggio del bene comune dalla clandestinità alla scena pubblica. Accanto alla desolazione e alla disperazione, sui luoghi del terremoto, sui media passano le immagini del soccorso. Non solo “professionale” ma soprattutto “volontario”. Lo spettacolo del dolore si mischia a quello della solidarietà. Senza soluzione di continuità. Sottoscrizioni dovunque. E partite di calcio, tennis, basket, pallavolo; concerti, recital, pièces teatrali. L´incasso totalmente devoluto alle popolazioni colpite dal sisma. Perfino i talk show più futili si riconvertono all´impegno.
Il bene comune e il bene pubblico diventano virtù accettate e condivise. E definiscono nuove regole di comportamento e di linguaggio. La “cattiveria” diventa improponibile. Anche come linguaggio e come sguardo. Come chiave di lettura della realtà. Dei comportamenti pubblici. Cresce l´insofferenza verso la satira e l´ironia, perché dissacrano la pietà. Così la critica e le polemiche: suscitano fastidio. Sospettate di corrodere il principio della comunità solidale. Guai a sottolineare le gaffe del premier. Guai a contestare il governo. La processione dei ministri, sui luoghi del disastro. Per non minare l´unità del paese, riunito intorno al dolore e al bene comune. Anche se in Italia – paese storicamente diviso – lo Stato è considerato proprietà di chi governa e la fiducia nelle istituzioni cambia segno a seconda di chi vince le elezioni. Con la conseguenza che la spinta verso il “bene comune” tende a premiare soprattutto – anzi “solo” – il governo e il suo leader. Con l´opposizione a recitare la parte del coro muto. (Non abbiamo ancora dati al proposito, ma scommetteremmo che i prossimi sondaggi confermeranno questa ipotesi). Così, leader e forze politiche che hanno fondato la loro immagine (e il loro successo) sul sorriso permanente e la comunicazione opulenta, su valori individualisti e aggressivi, sulla critica allo Stato: acquistano un volto sofferente e mite; identificano il bene pubblico. Non è nostra intenzione “mettere a tacere la voce della compassione”, per usare una formula di Adriano Sofri qualche giorno fa. Tuttavia, questo trionfo del “bene comune”, esibito dovunque come bandiera. Regola di comportamento e stile di comunicazione. Questo clima di bontà coatta. Mi fa quasi rimpiangere i giorni cattivi del tempo recente. Perché sfidare i “ministri della paura” è difficile. Ma non quanto opporsi alla “tirannia della bontà” e ai nuovi custodi del bene comune.
La Repubblica 19.04.09