La giustizia risponde in tempi biblici. Tanto più rispetto al ritmo nevrotico e febbrile che segue la politica, e perciò l’agenda parlamentare.
Ma può succedere che questi due tempi si ricongiungano, s’incrocino entrambi nel presente. Può succedere che nel 2009 una sentenza costituzionale bocci una legge del 2004, varata da un altro governo Berlusconi, due legislature fa. E può succedere che questa medesima sentenza sbatta come un pugno sul tavolo nelle decisioni che il Parlamento s’appresta a formulare. Perché ieri sera la Consulta ha azzoppato la legge sulla fecondazione assistita, ma in qualche modo pure la legge sul testamento biologico fin qui approvata dal Senato. E perché, sempre ieri, i giudici costituzionali hanno restituito qualche grammo di libertà alle donne, ma in prospettiva a tutti gli italiani. Per coniugare queste due vicende, c’è bisogno innanzitutto di descrivere la doppia censura d’incostituzionalità sulla quale si è abbattuta la mannaia della Consulta. In primo luogo, cade la norma che impediva di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». Una norma crudele, perché il divieto d’impiantare più di tre ovociti per ciclo, e insieme l’obbligo di trasferire tutti gli embrioni ottenuti con l’inseminazione, costringevano ogni donna a ripetere ad oltranza la stimolazione ormonale, esponendosi al rischio di contrarre malattie incurabili; e la costringevano inoltre ad accettare che l’embrione malato attecchisse nel suo corpo, semmai decidendo successivamente di abortire, e sottoponendosi pertanto a una doppia sofferenza. Come scrisse a suo tempo Michela Manetti, c’è in questa legge, in questo specifico passaggio normativo, una visione punitiva nei confronti della donna. E la punizione disposta dalla legge non si attaglia tanto all’illecito, quanto piuttosto al sacrilegio; non alla violazione di norme giuridiche, ma alla disobbedienza verso le leggi di natura. Ma c’è (c’era) anche un oltraggio nei confronti della scienza medica, dell’autonomia che spetta al medico. Questo perché il limite di tre embrioni da impiantare risulta in alcune circostanze troppo alto (determinando il pericolo di gravidanze plurigemellari), in altre troppo scarso. E perché inoltre il divieto di crioconservazione degli embrioni aumenta la necessità di ripetere la stimolazione ormonale, che tuttavia non si può ripetere vita natural durante senza mettere in pericolo la salute della donna. Insomma con quella norma l’eventualità che la terapia si concludesse con successo era un azzardo, una puntata ai dadi; non a caso vi si è subito innescato il fenomeno del turismo procreativo.
Ma adesso la Consulta ripristina la dignità dei medici, e insieme quella delle donne. È questo, dopotutto, anche il filo conduttore della seconda dichiarazione d’incostituzionalità (tecnicamente un’«additiva»), dove entra in gioco la norma che imponeva l’immediato trasferimento degli embrioni non impiantati al momento della fecondazione per causa di forza maggiore. No, ha detto ieri la Consulta: pure in quest’ipotesi il trasferimento va effettuato senza pregiudicare la salute della donna. E chi, se non il medico, ha in tasca gli strumenti per assumere tale decisione?
Poi, certo, leggeremo le motivazioni, quando la Corte le avrà depositate. Però intanto la doppia incostituzionalità della Legge 40 ci impartisce fin da adesso una doppia lezione, e soprattutto la impartisce ai nostri legislatori. In primo luogo, nessuna legge può trasformare i medici in altrettanti megafoni di un’ideologia politica, né tanto meno religiosa. In secondo luogo, nessun valore può farsi tiranno sugli altri valori che attraversano la nostra esistenza pubblica e privata. I valori vanno piuttosto compensati, bilanciati. È il caso della tutela dell’embrione rispetto alla salute della donna. Ma è anche il caso della libertà di decidere la morte, rispetto alla tutela della vita. Se il Parlamento se ne rammenterà, prima di licenziare quest’altra legge sul testamento biologico, potrà quantomeno risparmiare alla Consulta la prossima fatica.
La Stampa, 2 aprile 2009
michele.ainis@uniroma3.it
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