cultura

“Saviano in tv contro il silenzio che uccide”, di Roberto Brunelli

Roberto Saviano è un condannato a morte che va in tv. Oppure un uomo in guerra, come preferite. Chiude gli occhi spesso, congiunge le mani, si tocca la testa nervosamente.

Quest’uomo braccato che viene accusato di essere la star dell’anti-camorra lotta contro il silenzio di un paese, contro il veleno della diffamazione, contro una solitudine che porta morte. Di fronte ai 4,5 milioni di spettatori che ieri l’altro sera hanno decretato il trionfo di Che tempo che fa, Rai3, sconvolgendo la claustrofobica liturgia della televisione italiana, l’autore di Gomorra ha reso quasi corporea la sua battaglia per una cultura della legalità: un racconto lungo, terribile, straordinario.
Avvolto da una scenografia fatta di giornali e di notizie che rivelano l’apocalisse della camorra, Saviano ha snocciolato i nomi delle vittime – Don Beppe Diana, o il carabiniere ventenne Salvatore Nuvoletta, «uccisi non solo con le pallottole ma con la diffamazione» – e ha fatto scorrere anche quelli dei boss, troppo spesso rappresentati dalle cronache locali come dei guappi eroici, degli «sciupafemmine». L’unica arma, dice lo scrittore, «contro questa guerra che si sta combattendo nel Sud e che uccide una, due, tre persone al giorno» è ribellarsi all’oblìo, negare il silenzio, «che non permette al paese di capire cosa sta succedendo davvero». Gli dicono di essere lui medesimo una «operazione mediatica»? Saviano risponde sì, «io devo essere un’operazione mediatica. Anzi, il mio sogno è che la lotta alla criminalità organizzata diventi una moda». Perché è la parola l’unica difesa dalla morte certa che gli è stata giurata
appena si abbasseranno le luci della ribalta. Perché più persone «parlano, discutono, si confrontano» sul fenomeno Gomorra, sui fatti di criminalità organizzata, più esce alla luce del sole la vera fisionomia degli assassini, più la camorra potrà essere isolata, combattuta.

È una storia tragica, quella di Saviano. Un Fabio Fazio mai così serio, quasi livido, mostra le immagini dei ragazzi campani che chiamano Gomorra un «libro di favole» ed il suo autore uno che getta fango. Lui, Roberto, parla con amarezza degli amici che l’hanno abbandonato, e parla con dolore della sua famiglia, sola al centro del vortice oscuro iniziato da quando, tre anni fa, è stato messo sotto protezione. «Una non-vita», ripete Fazio. «Io esisto ora – ammette Roberto – poi vado in una stanza chiusa e non ho più vita fino al prossimo appuntamento».
E così, quella stessa tv che due sere prima metteva in scena, a Porta a Porta, il lavacro pubblico di un paese che ricostruisce la propria innocenza mandando in diretta tv l’ex «orco della Caffarella» rivelatosi innocente e in sopraggiunta quasi-monaco, quella stessa tv mercoledì ha segnato un suo significativo riscatto, mentre oggi arrivano le querele (la Gazzetta di Caserta, che parla di «fango e calunnie»), le solidarietà, le proposte di candidatura (Franceschini). Una drammaturgia perfetta, quella faziesca, ma straordinaria rispetto alla abituale claustrofobia del piccolo schermo, culminata con l’arrivo di due tra i più grandi scrittori del mondo, Paul Auster e David Grossman, venuti – loro – a rendere omaggio a Saviano, alla sua solitudine. È solo allora, mentre viene portato via dai quattro-cinque carabinieri e arriva l’applauso scrosciante del pubblico, che lo sguardo di Saviano per un istante diventa quello di un bambino.

Una serata tv straordinaria, diversa da tutte le altre: questo è stato lo speciale di «Che tempo che fa» con Roberto Saviano. «Solo la parola può vincere contro la guerra che si sta combattendo al Sud».

L’Unità, 27 marzo 2009

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