Ci voleva un gran coraggio a far nascere un figlio in quel cupo 1920 con il fascismo alle porte. E bisognava dargliene di coraggio a quella creatura. Così la bambina dagli occhi azzurri che arrivò in casa di Giuseppe e Carolina Di Vittorio fu chiamata Balda. Dal primo giorno, per tutti, fu Baldina. Lei ora è una signora «di ottantotto anni e mezzo» precisa sorridendo, che vive con una straordinaria lucidità e partecipazione, con amore e nostalgia ma senza alcun rimpianto, con lo sguardo proteso al futuro senza aver dimenticato un attimo del lungo passato, l’esperienza di essere la testimone della vicenda umana e politica di un uomo che ha contribuito in modo determinante a cambiare la storia di questo paese. Il suo papà, Giuseppe Di Vittorio, grazie ad una fiction di successo «bella e forte che in anteprima è stata proiettata a Cerignola, ed è giusto così», è stato scoperto da milioni di italiani, più di sei, che ignoravano la storia di «un personaggio straordinario, pieno di slancio, che ha sacrificato tutto ai suoi ideali». Ma non l’amore per la famiglia che è stata sempre un punto fermo. Molte soddisfazioni, molte gioie, grandi dolori e conti salati da pagare alla storia. E alcune posizioni «coraggiose ma dolorose sostenute, nonostante tutto, in cambio con un ingiusto isolamento. Ma lui non cambiò idea. Ed i carri armati russi che invasero l’Ungheria lui non li comprese mai». Cominciano così i ricordi dell’uomo che creò «un sindacato per troppo poco tempo unitario ma che, però, contribuì alla ricostruzione di un Paese che usciva da una guerra terribile. Ed anche il suo Piano per il lavoro fu incompreso». Un uomo che sempre preferì dialogo e confronto.
È un fiume in piena Baldina che ha «imparato a camminare sui tavoli della Camera del Lavoro», quando racconta dell’impressione straordinaria per questa improvvisa popolarità della figura del padre che l’ha resa «contenta ma anche preoccupata». Fa tanti progetti, specialmente rivolti ai giovani, «il futuro», e parla dei ragazzi che reagiscono ogni volta «prima con stupore e poi con interesse» al racconto della vita avventurosa di un bambino figlio di una terra aspra e bella che seppe alzare la testa, rivendicare i suoi diritti, e con i suoi quelli di tutti gli altri. E cambiare la storia. Forte di alcune convinzioni cui non rinunciò mai. L’importanza dello studio «perché le parole hanno un valore e bisogna studiare per crescere». La certezza che per contare davvero «i lavoratori dovevano essere organizzati e uniti». Conoscere e organizzarsi, dunque. «Uscire dall’improvvisazione, dalle forme di lotta primitive. Solo così, diceva mio, si sarebbero raggiunti i risultati». Saperne di più per riuscire davvero cambiare. «E per questo la prima iniziativa del circolo socialista fu quella di organizzare una scuola per i giovani e i braccianti. Aderirono in quattrocento» consapevoli che così si potevano combattere alla radice le ingiustizie di una società dove pochi volevano che nulla cambiasse per conservare, così, tutti i loro privilegi. Nell’accogliente salotto della casa romana di una signora che è stata dirigente dell’Udi ed anche parlamentare per due legislature, una alla Camera e l’altra al Senato, fanno da sfondo le foto con il padre, la famiglia unita, quelle del fratello Vindice morto troppo presto, il marito, la figlia Silvia. Si intrecciano nomi e ricordi. Baldina parla di Nenni e Amendola, di Togliatti e di Stalin esattamente come ricorda Ambrogio, il piccolo bracciante ucciso dallo scudiscio di un padrone arrogante e insensibile. «C’è anche nella fiction, andò proprio così. E allo stesso modo sono andati tutti gli altri episodi di una vita che, lo so, può sembrare inverosimile. Ma è la realtà. Nulla è stato romanzato. E non ho capito certe critiche. Mi sembra vadano nella linea che non condivido di un superbo distacco rispetto al sentire comune che è condivisione».
Parla della brutalità nei campi, della disperazione, dell’avvilimento ma anche della voglia di lottare per cambiare così come il padre gliel’ha raccontate e, poi, delle vicende vissute che il film «è riuscito a rendere al meglio». Nella memoria della figlia c’è la vita di un uomo coraggioso, un sindacalista e politico che ha dato il suo contributo a cambiare la società, ma che non ha mai dimenticato di essere anche un uomo fatto di passione, di amore. Con i suoi sentimenti, i suoi affetti, un «grande padre». «Non ci siamo mai separati, fin quando abbiamo potuto. Da bambini abbiamo cambiato città, paese, nome. Siamo stati clandestini e fuggiaschi. Ma di sera ci ritrovavamo a cena. La mamma, papà, Vindice ed io a raccontarci la nostra giornata. E poi, subito dopo, mi ricordo papà che si metteva al suo tavolo per lavorare andando avanti fino a tardi. In clandestinità non potevamo avere amici. Ma la famiglia, sarà perché venivamo dal sud, ci bastava». Il campo di concentramento, la prigionia, la guerra, la morte non sono riusciti a dividere neanche ora il sentire comune di quattro persone legate da un indissolubile amore che si legge negli occhi azzurri di Baldina, «gli unici della famiglia» precisa con un pizzico di civetteria.
I ricordi si inseguono. Tanti episodi. «Non ho mai raccontato che i miei genitori furono fidanzati per dodici anni e che mia madre, una donna davvero eccezionale, in quegli anni faceva l’economa per il Circolo giovanile socialista. Figuriamoci, una donna». Racconta del padre che davvero si comprò per due soldi “il libro con tutte le parole”. Di quando girava per la Puglia prima con una bicicletta comprata usata con una colletta tra i braccianti e poi su quel sidecar rosso che si riconosceva da lontano e su cui Di Vittorio portava tutta la famiglia ogni volta che andava ad incontrare i lavoratori. «L’ho visto sempre in mezzo ai braccianti». E quel dolore enorme raccontato e ripetuto «per non aver potuto studiare». Però Di Vittorio aveva imparato da solo «e quando arrivavano i giornali li leggeva agli altri». Scriveva per L’Internazionale. «Mandava gli articoli con l’invito a chi li riceveva a rileggerli e rimandarglieli con le correzioni per capire dove aveva sbagliato e non rifarlo più». Poi diresse, esule a Parigi, La voce degli italiani. Lì conobbe Anita che dopo la scomparsa di Carolina, la moglie e madre dei suoi figli, gli fu compagna fino alla morte. Scriveva con una grossa penna stilografica. Solo la nipotina ci poteva giocare.
«Lo so, sembra una fiaba. Ma la sua vita è stata proprio così». Ora Baldina Di Vittorio questa favola bella ma anche dura vuole continuare a raccontarla ai giovani. Con l’associazione Casa Di Vittorio vuole andare nelle scuole a raccontare di un bambino povero e ignorante che non rinunciò a studiare e di un uomo che fondò il sindacato moderno e non ha mai rinunciato a lottare contro le diseguaglianze e che è riuscito ad abbattere il muro della soggezione che sembrava troppo alto da superare quando da una parte c’era il padrone e dall’altro braccianti affamati. «Mondo era e mondo sarà» diceva il barone che il mondo voleva continuare a viverlo a modo suo. Giuseppe Di Vittorio quel mondo lo ha cambiato. «Spero che dalla difficile situazione di oggi si possa uscire anche facendo buon uso delle sue certezze».
L’Unità 21.03.09