Cominceremo ad uscire dalla crisi quando i Governi cominceranno davvero a capirne la gravità. Usciremo dalla crisi più forti di prima solo se i Governi cominceranno ad interrogarsi su come sarà il mondo dopo la crisi e a prendere contromisure per evitare che questo nuovo mondo sia peggiore del vecchio. Ovunque questo processo di apprendimento delle classi dirigenti e di costruzione del consenso, inevitabilmente graduale in regimi democratici, sta avvenendo troppo lentamente. C´è da chiedersi quanti milioni di disoccupati ci debbano essere in Europa prima che i Governi europei si accordino per coordinare le proprie politiche fiscali di risposta alla crisi, rendendole molto più efficaci, in virtù degli effetti moltiplicatori dei singoli provvedimenti sulla domanda anche negli altri paesi. Potrebbe stimolare di più le nostre economie per ogni dato livello di spesa con ricadute positive per tutti.
Nonostante chi tiene le fila della nostra politica economica si vanti di avere previsto la crisi prima di tutti, da noi il processo di apprendimento è stato più lento che altrove. Abbiamo così introdotto per ultimi delle misure di sostegno al sistema bancario che saranno, proprio perché tardive, probabilmente insufficienti. Lo abbiamo fatto dopo avere introdotto una tassa ad hoc sulle banche proprio mentre la crisi finanziaria si aggravava. Virate a 180 gradi, dalle tasse agli aiuti alle banche, non si sono viste da nessun´altra parte. Non abbiamo introdotto subito misure di stimolo alla domanda, come negli altri paesi, col risultato che da noi il prodotto interno lordo sta scendendo più che negli Stati Uniti o nel Regno Unito, nell´epicentro della crisi, e la spesa delle famiglie residenti sta calando a un tasso dell´1,5 per cento. Mai visto prima. Nonostante l´esplosione delle ore di Cassa Integrazione (tornate ai livelli del 1993, come documentato ieri dal Centro Studi Confindustria) e il forte incremento delle domande di sussidi di disoccupazione (+50% nei primi due mesi del 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008), il Governo non si è ancora deciso a varare una riforma degli ammortizzatori sociali, razionalizzando i vari schemi esistenti e finanziandoli in modo adeguato e trasparente. Si potrebbe spendere di meno, ampliando la platea dei beneficiari, e dando certezze a chi perde il lavoro: saprà che verrà aiutato. Invece si lascia tutto com´è e si annuncia che ci sono fondi che in realtà sono sulla carta e per lo più concentrati nelle Regioni del Sud. Il risultato è che in Lombardia si sono già esauriti i fondi per la Cassa Integrazione, anche quelli originariamente previsti per Malpensa, e poi destinati ad altre imprese nell´emergenza. Problemi simili sarebbero già emersi anche in Piemonte. E siamo solo agli inizi della crisi occupazionale.
Perché da noi il processo di apprendimento è così lento? Una possibile spiegazione è che l´opinione pubblica non è abbastanza informata sulle scelte di politica economica. Accade, ad esempio, in questi giorni di vedere riportate sui maggiori quotidiani nazionali le seguenti affermazioni del nostro ministro dell´Economia: «Abbiamo seguito la stessa strada intrapresa da Roosevelt durante la crisi americana. Sommando le cifre, quelle messe a disposizione dal governo italiano sono maggiori rispetto a quelle degli altri Paesi europei�» (�) «Noi siamo il Paese che per l´economia reale ha fatto più degli altri. Quello che hanno fatto gli altri Paesi è stato soprattutto per salvare le banche». Non stupisce vedere un ministro cercare di farsi pubblicità. Colpisce l´esagerazione (il parallelo con Roosevelt) e, soprattutto, il fatto che gli stessi organi di informazione che riportano queste dichiarazioni così impegnative non si preoccupino minimamente di verificarne la veridicità. Non ci vorrebbe molto perché esistono due autorevoli ricostruzioni della dimensione dei pacchetti fiscali a sostegno dell´economia nei diversi paesi. La prima è quella appena compiuta dal Fondo Monetario Internazionale che raccoglie queste informazioni nell´ambito delle sue funzioni istituzionali. Mostra come il pacchetto italiano nel 2009 sia appena dello 0,2 per cento del prodotto interno lordo, molto di meno di quanto messo in campo da paesi emergenti come Brasile (0,4%) e l´India (0,5%) e di paesi più indebitati di noi come il Giappone (1,4%). La seconda ricostruzione è quella compiuta dal Centro Bruegel in questi giorni sulle misure prese dai paesi dell´Unione Europea nel 2008. L´Italia è l´unico paese che dà un contributo negativo ai pacchetti di stimolo fiscale: solo da noi le misure “contro la crisi” hanno aumentato più le tasse delle spese.
La crisi rende ancora più importante avere una informazione economica approfondita e indipendente. Serve a mantenere forte la pressione nei confronti dei Governi. Può rassicurare l´opinione pubblica, ma solo quando l´esecutivo prende le misure adeguate e non perché è il Governo a chiederle di dipingere la vie en rose. Oggi l´editoria è in una crisi ancora più profonda della nostra economia e questa la rende più vulnerabile alle pressioni dei gruppi di potere economici. L´assenza di critiche se non addirittura la celebrazione di nostri grandi banchieri sugli organi di informazione in mesi in cui i titoli dei loro istituti sono crollati del 50 per cento o più è un segnale molto preoccupante. Senza un´in-formazione adeguata la democrazia è poco reattiva, corregge con troppo ritardo gli errori che vengono, pressoché inevitabilmente, compiuti dalla classe politica. È un costo che in tempo di crisi proprio non possiamo permetterci.
La Repubblica, 13 marzo 2009