La crisi stringe il cerchio. Dentro ci sono tutti. Anche loro. Anche i laureati. C’era da immaginarselo. Una spia significativa di questo fenomeno arriva da uno dei “polmoni di lavoro” più moderni dell’università. Sono infatti sempre meno le imprese che si rivolgono alla banca dati di Almalaurea, il consorzio universitario che coinvolge 52 atenei italiani, dove sono contenuti i curriculum di un milione e duecentomila laureati. Un grande bacino di talenti che in un anno ha ceduto alle imprese ben 460 mila profili di studenti usciti dalle aule universitarie. Il dato acquista rilievo particolare perché sono proprio le università il canale che le imprese, negli ultimi anni, hanno mostrato di privilegiare quando devono entrare in contatto con le migliori risorse.
A gennaio e febbraio 2009, rispetto all’anno scorso, le necessità dei direttori del personale sono scese di un corposo 23 per cento. E a vedere diminuire la richiesta sono tutti. Anche quei laureati che sono considerati da sempre la punta di diamante, quelli che le imprese vedono come più preparati e adatti a fare il loro ingresso in azienda. I laureati del gruppo economico statistico hanno subito una flessione del 35 per cento mentre la domanda di ragazzi e ragazze con studi di ingegneria alle spalle è scesa del 24 per cento.
La lunga discesa degli occupati. I dati sono quelli di Almalaurea che verranno presentati a Bari il 12 marzo insieme all’undicesimo Rapporto 2009 sulla condizione occupazionale dei laureati che ha coinvolto 300 mila laureati di 47 università italiane di cui 140 mila laureati post-riforma. “Ciò che deve essere scongiurato – dice Andrea Cammelli, direttore del consorzio – è che una preziosa e qualificata risorsa rischi di essere schiacciata fra un sistema produttivo che non assume e un mondo della ricerca priva di mezzi”.
Se il dato relativo alla banca dati è una sorta di istantanea di quel che sta accadendo in questo preciso momento, le cose non migliorano di molto se si cerca di andare a capire qualcosa di più nel medio periodo. Negli ultimi sette anni, dicono gli autori del Rapporto, la percentuale dei laureati (del vecchio ordinamento) che ha trovato impiego, ad un anno dal conseguimento del titolo, si è contratta di oltre sei punti percentuali passando dal 57,5 per cento del 2001 al 51,4 per cento del 2008. Il tasso di disoccupazione nell’ultimo anno è poi aumentato di tre punti percentuali. Ed è immaginabile che nel prossimo anno i valori saranno ancora più critici.
Essere atipici. Anche adesso che tutti abbiamo fatto il callo alla precarietà, sorprende il dato relativo alla persistenza della natura atipica dei contratti di lavoro che legano i laureati alle imprese. Si dice che la condizione “precaria” soprattutto per i laureati, per i giovani, sia una condizione temporanea e di passaggio. Ma così non è. E ancora una volta, purtroppo, ne è arrivata una prova. Più di un quarto (il 26,8 per cento) di quelli che lavorano da cinque anni si ritrova in mano solo un contratto atipico. E se è vero che nel tempo si riduce tale quota (a un anno dal conseguimento è quasi il doppio), è però innegabile che la proporzione di quelli che rimangono intrappolati tra contratti di collaborazione e rapporti a tempo sembra essere al di sopra di quanto sopportabile da una società che vuole crescere e offrire occasioni ai suoi cittadini.
Gli stipendi più leggeri. Negli ultimi quattro anni il guadagno mensile netto, rivalutato ai valori attuali, è sceso del sei per cento. Nel 2005 quelli che si erano laureati cinque anni prima, guadagnavano 1.428 euro in un mese, dopo tre anni si sono dovuti accontentare di 1.343 euro con una perdita del potere d’acquisto pari al 6 per cento. Per quanto riguarda le differenze territoriali, lo stipendio netto di chi lavora al nord Italia si attesta a 1.392 euro mentre nelle regioni centrali scende a 1.314 euro e al Sud scivola a 1.118 euro. Disparità però che, al netto del diverso costo della vita territoriale, sono pari al 2 per cento.
Quelli del 3+2 e i “triennali”. Il rapporto di Almalaurea ne ha coinvolti poco più di 30 mila. E, pure se sono tra coloro che mostrano le migliori performance di studio (un voto medio di 109 su 110) e molti di loro trovano impiego, si deve constatare che solo il 28 per cento di loro ha un posto stabile mentre il 49 per cento fa i conti con un contratto atipico.
Difficile comprendere a fondo i dati dei neolaureati di primo livello, ovvero quelli della laurea triennale (un campione pari a 105 mila laureati). Soprattutto in considerazione del fatto che molti di loro proseguono il corso di studi. Se si escludono quelli che continuano a studiare, si scopre che il 69% per cento di chi consegue il titolo trova un impiego entro un anno. Ma il 47 per cento di loro ha un contratto precario e solo il 40 per cento riesce ad approdare alle spiagge sicure (e remote) della stabilità.
Accesso al credito e al capitale umano. Per rilanciare e tornare a dare un’occasione ai migliori talenti italiani, dicono gli autori della ricerca, è necessario “favorire l’accesso delle imprese, incluse quelle piccole e medie, alle risorse umane più giovani e di qualità formatesi all’università”. In questo modo, in un quadro nazionale in cui le risorse destinate all’istruzione e alla ricerca sono da tempo insufficienti, il capitale umano di alto livello rimane ancora ridotto e prevalgono le piccole e piccolissime imprese, il governo potrebbe perseguire il duplice obiettivo di “sostenere l’iniezione di risorse umane di più elevata qualità nel sistema produttivo, e assicurare alle nuove generazioni, quelle più capaci e preparate, un futuro lavorativo incoraggiante nel proprio Paese”.
La Repubblica, 10 marzo 2009
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