Le donne al vertice delle imprese italiane sono poche, molto meno della media europea, e questo è un fenomeno noto, di cui da qualche tempo si è iniziato a discutere. La novità che emerge da una ricerca di Cerved sulle donne manager è un’altra: le imprese guidate dalle donne vanno meglio rispetto alle altre, accrescono più velocemente i ricavi, generano più profitti, sono meno rischiose. Secondo le statistiche della Commissione europea, il l’Italia è 29ª (su 33 Paesi censiti) per numero di donne presenti nei consigli d’amministrazione delle società quotate in Borsa (con il 4% degli amministratori, contro una media della Ue a 27 dell’11%), seguito solo da Malta, Cipro, Lussemburgo e Portogallo.
Utilizzando gli archivi di Cerved sui soci e sugli amministratori delle società di capitale italiane, è possibile allargare il campo d’osservazione anche alle aziende non quotate: la presenza femminile nei consigli d’amministrazione delle imprese con un fatturato maggiore di 10 milioni risulta pari al 14%, in leggera crescita rispetto al 12% osservato nel 2001.
Le imprese in cui il potere è in mani femminili sono una rarità: i consigli d’amministrazione con una maggioranza femminile, o quelli costituiti da sole donne, rappresentano infatti un’esigua minoranza nel panorama della società di capitale italiane. Rispetto alle oltre 18mila imprese tutte maschili, le società con un board prevalentemente costituito da donne sono solo 1.850, il 6,4% del totale delle imprese con ricavi oltre i 10 milioni; di queste, sono solo 767 quelle in cui il Cda è tutto al femminile. Una quota consistente delle società considerate, il 21,4%, è tuttavia costituita da imprese con un solo amministratore, in cui non esiste un vero e proprio board che discute e decide le strategie aziendali. Escludendo queste imprese dai conteggi, esistono solo 86 aziende con un Cda completamente femminile (complessivamente, le imprese in cui il board è a prevalenza femminile sono 1.169). Le società con un Cda tutto maschile sono invece la maggioranza, circa 13mila, e quelle dove le donne sono presenti, ma in minoranza, circa 7mila (un terzo del totale). I consigli d’amministrazione a prevalenza femminile sono diffusi soprattutto tra le imprese attive nel campo dell’istruzione, della sanità o dell’assistenza personale, nel tessile-abbigliamento, nell’industria del mobile, mentre quelli in cui è più raro trovare imprese con una maggioranza di donne al comando sono le utility, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, le attività ricreative.
Le statistiche indicano chiaramente che le poche aziende in cui le donne occupano la maggioranza o la totalità delle poltrone di comando sono concentrate tra le imprese minori: solo l’11% delle società a prevalenza femminile supera i 50 milioni di fatturato (contro una percentuale media del 21%). La bassa presenza di donne nei Cda delle imprese maggiori appare in tutta la sua evidenza quando si focalizza l’attenzione sul gotha dell’economia: nei board dei primi dieci gruppi o aziende italiane per fatturato non vi è nemmeno una donna; tra le prime 15, solo il gruppo Benetton e Vodafone hanno un board non completamente maschile (1 donna nel cda Benetton e 2 in quello Vodafone). Considerando i soli bilanci d’esercizio ed escludendo quindi i gruppi dal conteggio, le donne sono presenti solo in 9 delle prime 50 società italiane e la prima impresa in cui il numero di donne non è inferiore a quello degli uomini è la numero 24 del ranking, la Marcegaglia Spa (due uomini e due donne nel Cda); per trovare la prima società con un board composto in maggioranza da donne bisogna scendere addirittura al numero 442 della graduatoria.
Nell’ambito della ricerca, Cerved ha anche individuato la figura di un capo, il top manager dell’azienda cui compete la responsabilità dell’attività operativa dell’impresa. Le società in cui il capo è una donna sono 2.652 (il 9,2% dell’insieme d’osservazione). Le top manager italiane, mediamente più giovani dei loro colleghi uomini, sono alla guida di imprese più piccole (sono donne solo il 3,8% dei capi tra le società con ricavi oltre i 200 milioni) con un board meno strutturato o del tutto inesistente.
Studi recenti hanno dimostrato che le banche applicano tassi d’interesse maggiori alle imprenditrici, senza che questo sia giustificato da un diverso profilo di rischio delle donne rispetto agli uomini. I dati di Cerved sulle società di capitale confermano che la rischiosità delle imprese a guida femminile non è affatto superiore rispetto alle altre e, anzi, sembrano evidenziare l’esistenza di un vero e proprio “D factor”: nonostante siano imprese più piccole (che, in generale, hanno conseguito risultati peggiori rispetto alle società maggiori nel periodo considerato), le aziende con una donna come top manager hanno accresciuto più velocemente i ricavi, generato più margini lordi, chiuso più frequentemente l’esercizio in utile. Evidenze empiriche suggeriscono anche che, quando le donne sono in maggioranza nel Cda, si riduce il rischio di default.
Tra il 2001 e il 2007, le società femminili hanno incrementato i ricavi a un ritmo medio annuo superiore rispetto a quelle maschili in ogni fascia di fatturato considerata (dell’8,8% contro l’8,6% tra quelle con ricavi superiori ai 200 milioni, del 7,7% contro il 6,5% tra quelle con ricavi tra i 50 e i 200 milioni, del 3,6% contro il 2,7% tra quelle con ricavi compresi tra 10 e 50 milioni).
Le imprese con un capo donna hanno anche evidenziato una migliore capacità di generare profitti nel 2007: in media, le società femminili realizzano 6,9 euro di margini operativi lordi ogni 100 euro di fatturato, contro i 6,5 euro delle aziende maschili. È maggiore anche la quota d’imprese femminili in grado di chiudere l’esercizio in utile: di 3,5 punti per quelle con ricavi oltre i 200 milioni (86,5% contro 83%), di 3,3 per quelle tra 50 e 200 milioni (85,2% contro 81,9%), di 0,3 per quelle con ricavi tra 10 e 50 milioni.
Nonostante la più marcata concentrazione nelle fasce inferiori di fatturato, la percentuale d’imprese guidate da donne nelle classi più rischiose del sistema di rating del gruppo Cerved-Centrale dei Bilanci (un indice di sintesi del rischio di default di un’impresa) è sostanzialmente allineata con quelle delle aziende con un capo maschio. Un’analisi econometrica su circa 24mila società consente di isolare e quantificare il “fattore D”, il minor rischio associato all’impresa quando nel board vi è una maggioranza di donne. L’analisi indica che, quando il Cda è costituito in prevalenza da donne, la probabilità di rientrare in una classe di rating peggiore si riduce del 15% rispetto ai casi in cui le donne sono in minoranza o assenti dal Cda..
D’altra parte, i dati indicano che la presenza di donne nei Cda è associata a una minor percentuale d’imprese in crisi o che hanno chiuso i battenti. Tra le imprese che nel 2001 superavano i 10 milioni di fatturato con un board composto da almeno due componenti, solo una percentuale del 13% delle società in cui le donne occupavano la maggioranza o la totalità delle poltrone di comando è entrata in crisi finanziaria o non è più attiva: la stessa percentuale calcolata sul complesso delle imprese è pari al 22 per cento.
Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2009
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