A fronte della gravissima recessione mondiale e del girone infernale di tracolli finanziari, crolli azionari, salvataggi pubblici di banche e assicurazioni, la forza del messaggio trasformatore di Obama sta nella proposizione, con chiari contenuti identitari, di un modello socio-economico alternativo a quello deflagrato con la crisi internazionale in atto. Le questioni di identità, dunque, rimangono cruciali, a dispetto della facile credenza che vuole che partiti postideologici siano anche partiti postidentitari.
Ciò vale anche per il Pd, per il quale lo slancio con cui il suo nuovo segretario, Franceschini, si è gettato su questioni identitarie la Costituzione, la laicità, l’immigrazione, il valore del lavoro lasciano sperare che problematiche culturali cruciali, ma fin qui rimosse, possano ora finalmente essere poste con il necessario vigore. Infatti, il profilo programmatico del Pd appare ancora insufficientemente definito, al punto che alcuni si spingono a proporre uno “scambio” ammortizzatori sociali/pensioni, mentre occorrerebbe con orgoglio rivendicare al centrosinistra l’aver difeso la superiorità del modello sociale europeo e con essa i sistemi previdenziali pubblici a ripartizione contro le tendenze neoliberiste alla capitalizzazione (che oggi lasciano con tutele pensionistiche decurtate i lavoratori indotti ad affidarsi agli investimenti azionari).
Ma il profilo programmatico è controverso anche perché è ancora insufficientemente definito il nostro profilo identitario, a partire dal “dove” e su “cosa” collocare il decisivo discrimine destra/sinistra, discrimine di cui troppi cattivi maestri si sono affrettati a decretare la scomparsa. Tanto più per dare risposte all’altezza delle sfide poste dalla crisi più grave dopo quella del ’29, e non rimanere schiacciati tra lo statalismo autoritario e probusiness di Tremonti e il neoliberismo di risulta dei cattivi maestri, è necessario un duro lavoro culturale di elaborazione, discussione, costruzione di una piattaforma idelogico-valoriale volta a dare un collante identitario al Pd.
Non dobbiamo avere paura della parola ideologia se con essa ci riferiamo a una weltaschaung e non a un “falsa coscienza”, né della parola identità se con essa intendiamo non un monolitismo tradizionale ma una “pluralità” di ispirazioni e di idee ricondotte a sintesi, ponte tra passato e futuro. Con un simile “sistema di idee” saremmo aiutati a riconoscere le “scorciatoie” semplicistiche per quello che sono: la contrapposizione stato/mercato (e non un nuovo intervento pubblico per il “bene comune”), la polemica sui “fannulloni” (nell’indifferenza per il funzionamento reale delle organizzazioni pubbliche), la esaltazione dell’impresa italiana così com’è (sottodimensionata, poco innovativa, famigliare), il fagocitamento dell’idea di equità (soluzione imparziale dei conflitti anche redistributivi) nell’apologia del decisionismo personalizzato.
L’Unità, 5 marzo 2009
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