Lettera a “Il Corriere della Sera”
Caro direttore, sono giorni che penso che questa vicenda lascerà un segno profondo nella coscienza civile del Paese. Non so dire, ora, se essa avrà prodotto, attraverso la «cognizione del dolore», l’effetto di far fermare l’opinione pubblica, di farle sospendere, per un’ora o per un giorno, la bulimica corsa verso il niente che spesso riempie la solitudine di senso del nostro tempo.
Il corpo di una ragazza, di quella ragazza sorridente, viva, allegra. Diciassette anni fa. Quel corpo che noi ricordiamo così. Noi, che l’abbiamo vista solo così. Il corpo di quella ragazza che il dolore e l’assenza di relazione vitale, che un tempo trascorso senza la gioia di sentire il rumore dei propri passi e di quelli degli altri, della propria voce e di quella degli altri, avrà reso irriconoscibile.
Il pudore e l’amore di un padre hanno salvaguardato la riservatezza della mutazione di quel corpo. Anche al rischio che si potesse pensare, nel fuoco della orrenda campagna politico-mediatica, che Eluana fosse quel sorriso, quella vita neanche cominciata, quel progetto che diciotto anni portano in sé. E invece Eluana era quel corpo martoriato, un corpo muto, incapace di testimoniare il proprio dolore perché nascosto, coperto, tutelato dall’amore di un padre.
Cosa sarebbe successo se una sola immagine di Eluana oggi fosse arrivata nelle tv o sui giornali? Quale effetto emotivo, uguale e contrario alle foto solari di un giorno di vacanza, si sarebbe determinato nell’opinione pubblica? Perché l’Eluana che se ne è andata è quella che il padre non ha voluto mostrare, sfidando ogni cinismo, ogni calcolo di opportunità, ogni convenienza. Essere padre, in una società che ha imparato a discutere ruolo e autorità di una figura determinante nella vita di ciascuno. Mi è capitato di scrivere molte volte, parole di romanzi, su questo tema. E ogni volta mi arrivavano valanghe di lettere.
Una signora, un giorno, mi avvicinò e mi chiese qualcosa che mi scosse. Lo chiedeva a me, come fossi un esperto. A me, che non ho neanche una fotografia con mio padre. Mi chiedeva cosa doveva fare con il suo papà che stava morendo. Perché in tutta la loro vita non si erano mai, neanche una volta, abbracciati. E lei temeva che se lo avesse fatto lui avrebbe capito che la sua vita stava finendo. E’ la storia di Eluana allo specchio, questa. E’ la storia di Eluana che da quella sera che una lastra di ghiaccio la tradì è stata accompagnata dalle parole, dalle carezze, dalle lacrime di un padre e di una madre che si è consumata nel dolore. Per questo, lo dico con raccapriccio ma senza polemica (non qui, non ora), mi ha indignato come poche cose nella mia vita ascoltare un uomo politico, un uomo di governo dire che la battaglia di quel padre sembrava avere come obiettivo «togliere di mezzo una scomodità».
Come si può mai parlare di una creatura come di una «scomodità»? Come si può ignorare che quei due esseri umani hanno curato e accudito quella ragazza silenziosa per seimiladuecentotrentatrè giorni? E’ la storia di una famiglia italiana, quella degli Englaro. Ed è la storia di migliaia di famiglie che vivono la stessa angoscia. Qualcuna si aggrappa ad ogni speranza, per amore. Qualcuna pensa che il dolore che quel corpo vive debba finire, per amore. Che diritto abbiamo noi di polemizzare, urlare, inveire di fronte a questa abissale tragedia di amore?
Noi, che abbiamo responsabilità, facciamo le leggi. Leggi giuste, meditate, umane. Leggi coscienti dei limiti invalicabili per uno Stato liberale. Ad esse i cittadini si atterranno. Il resto è inconoscibile. E’ ciò che scorre nella mente e nel cuore di chi ama una persona che non può rispondere. Di chi da padre, o madre, vede il proprio figlio spegnersi nel silenzio, quando la natura vorrebbe il contrario. Questo e solo questo mi viene da dire, su Eluana Englaro, ragazza italiana. Che di amore e di dolore è stata circondata per seimiladuecentotrentatré giorni tristi e notti infinite.
11 febbraio 2009