Sono passati duecento anni dalla nascita di Darwin, centocinquanta dalla pubblicazione del suo libro sull’origine delle specie. L’idea dell’evoluzione non era completamente nuova. Lamarck l’aveva avanzata più di cinquant’anni prima, ma non aveva dato una spiegazione convincente della causa. Invece, Darwin l’aveva trovata, e la biologia ha potuto crescere, anche e soprattutto grazie a questo riconoscimento fondamentale, che era però in urto con millenni di pregiudizi.
In questo secolo abbiamo raggiunto lo stadio in cui la biologia è diventata una scienza esatta, in due modi diversi. Il primo è chimico, perché la chimica degli organismi viventi non è più limitata allo studio di poche, piccole molecole biologiche di secondaria importanza, come era la chimica biologica di cinquant’anni fa. Oggi conosciamo le vere molecole della vita, che sono grandi e complicate. La struttura fondamentale delle specie viventi è contenuta in lunghissimi “libri” che formano il patrimonio ereditario o genoma: una descrizione chimica, scritta in un alfabeto a quattro lettere, i nucleotidi, le unità che attaccate l’una all’altra in lunghissimi filamenti formano il Dna.
In questo secolo conosceremo il Dna di moltissime dei due milioni di specie di piante ed animali che hanno ricevuto un nome dai tassonomi che le studiano, e potremo ricostruirne l’albero evolutivo in forma di una genealogia molto complicata, ma esatta. La tassonomia zoologica e botanica e dei microrganismi diventeranno librerie enormi, ogni specie un libro molto lungo, fatto di tanti capitoli quanti sono i cromosomi (in numero caratteristico di ogni specie: uno nei batteri, 23 nell’uomo). Ogni capitolo è fatto di sezioni, i geni, tanti quante sono le proteine diverse poiché ogni gene contiene le istruzioni per fare una proteina specifica, ognuna con costituzione chimica, forma e funzione speciale. Queste istruzioni dipendono dall’ordine in cui i nucleotidi sono entro il cromosoma, in media una migliaia di nucleotidi per gene, e vi sono decine di migliaia di geni nel nostro genoma. Vi sono anche lunghi tratti di Dna fra i singoli geni di cui sappiamo meno, ma vi è molta attività per imparare se e quale funzione hanno. Tutto insieme il Dna determina la forma e funzione del corpo di ogni organismo vivente e delle sue parti.
Il secondo progresso sarà nello studio delle forze e leggi che producono l’evoluzione, cioè la trasformazione di ogni specie, la loro differenziazione, l’origine di nuove e l’estinzione di vecchie. Questi studi sono cominciati all’inizio del secolo scorso con teorie matematiche che sono paragonabili a quelle della fisica nello studio della materia non vivente. Abbiamo applicato così la raccomandazione di Galileo di ricordare che “la materia è scritta in termini matematici” – ma aggiunge subito, quasi per tranquillizzarci, esempi che ci parlano di forme geometriche che ci sono famigliari. Forse già ai suoi tempi era diffusa una certa paura dei numeri e delle formule.
Quel che Darwin trovò è una spiegazione semplice e universale che ci permette di capire come sono fatti gli organismi viventi e perché devono cambiare, adattandosi sempre meglio al loro ambiente. Noi, come tutti gli altri organismi viventi, abbiamo una certa complessità, e siamo capaci di riprodurre altri individui estremamente simili a noi stessi: la proprietà fondamentale della vita, che la rende possibile, è l’auto-riproduzione. Al tempo di Darwin si pensava che ogni essere vivente fosse stato creato da un Ente soprannaturale e non cambiasse mai. Ne era convinto anche il nostro eroe quando ha cominciato le sue esplorazioni attraverso il mondo: tutte le specie furono create circa 6000 anni fa, secondo la interpretazione letterale della Bibbia, che riassume in sei “giorni” i quasi sei miliardi di anni di vita della Terra. Parlare di “epoche” sarebbe stato un po’ meno erroneo; molte volte una parola ci tradisce – un errore di traduzione della parola “giorni”? Darwin è stato aiutato da varie osservazioni a capire quel che succede, anche se la storia della nostra specie è molto corta ed eravamo poco interessati a scoprirla. Solo recentemente gli archeologi e i paleontologi hanno cominciato a studiare cadaveri molto antichi, pietrificati. Avevano cominciato ai tempi di Darwin ma non vi era accordo sulla loro interpretazione: un grande medico tedesco, Rudolf Virchow, fondatore dell’anatomia patologica, alla cui analisi furono sottoposti i primi scheletri di Neanderthal dichiarò che le anomalie ossee riscontrate erano dovute a fatti patologici. Ma sotto l’influenza dell’addomesticazione, gli animali hanno avuto una profonda evoluzione.
Ieri guardavo i complimenti che si scambiavano due cani, un pechinese e un gran San Bernardo. Sono così diversi, che sarebbe assai difficile a noi riconoscere che sono la stessa specie se non lo sapessimo dalla storia di pochi secoli. Perché la loro apparenza è così differente? Sono i loro padroni che li hanno cambiati come hanno voluto, continuando a scegliere per la riproduzione certi individui strani e diversi. Hanno potuto farlo per molte generazioni, dato che i cani si riproducono assai più rapidamente di noi. Questo processo di scelta volontaria dei riproduttori non ha però modificato la loro capacità di riprodursi fra loro: ha avuto il nome di “selezione artificiale”, e le molte osservazioni mostrano che può provocare una rapida evoluzione.
Altro aiuto alle elucubrazioni di Darwin venne dalle osservazioni demografiche dell’economista inglese Thomas Robert Malthus, circa l’insufficienza delle risorse di vita rispetto alla rapida riproduzione degli organismi viventi, che crea situazioni di competizione per cui solo una frazione piccola dei nati riesce a riprodursi. Il titolo della prima opera di Malthus sembra preannunziare la selezione naturale: Un saggio su un principio demografico che influenza il miglioramento futuro della società; in realtà l’economista Malthus si riferiva all’aumento di ricchezza, non di adattamento biologico della popolazione al proprio ambiente di vita. Difatti la selezione naturale è un fenomeno strettamente demografico che agisce automaticamente selezionando i “migliori”, che sono coloro che si riproducono di più nell’ambiente di vita. Ma il processo può funzionare solo per i caratteri ereditarii, cioè che si ripresentano sufficientemente immutati nei figli. Sappiamo che un certo tipo ereditario (per esempio, la pelle scura) dà più probabilità di sopravvivere ed avere figli, a confronto con un tipo ereditario diverso (la pelle chiara) in un ambiente tropicale in cui il sole batte forte, perché i raggi ultravioletti solari provocano tumori cutanei, potenzialmente mortali, molto meno frequentemente negli individui di pelle scura. Infatti, il pigmento cutaneo scuro impedisce agli ultravioletti di traversare la pelle e giungere alle cellule capaci di produrre il tumore. È chiaro che in questo modo la popolazione tenderà a diventare più nera di pelle ai tropici, tanto più rapidamente quanto più alta è la mortalità da tumore negli individui di pelle chiara rispetto a quella di pelle scura, limitatamente ai tropici. È necessario, naturalmente, che il colore della pelle sia ereditato, e lo è largamente. L’intensità della selezione naturale dipende dalla differenza di probabilità di sopravvivere fino a riprodursi, e dalla fecondità tra i due tipi ereditarii nell’ambiente comune ai due tipi. Il “teorema fondamentale della selezione naturale” di R. A. Fisher (1930) che prevede la velocità di cambiamento di un carattere ereditario sotto selezione naturale usa appunto le curve di sopravvivenza e di fecondità in funzione dell’età per i diversi tipi ereditarii.
Darwin sapeva che in qualche modo si producono differenze ereditarie per caratteri specifici fra individui, ma non sapeva come. Oggi sappiamo che la riproduzione implica il passaggio dai due genitori a ogni figlio di una copia completa del genoma del padre e di quello della madre. Ma la produzione di una copia del Dna comporta una certa frequenza di “errori di copia”, di cui i più semplici e comuni sono l’errore di trascrizione di un singolo nucleotide in un singolo punto di un particolare cromosoma: in pratica, la sostituzione di uno dei quattro tipo di nucleotidi con uno degli altri tre. Questo cambiamento del Dna detto una mutazione è trasmissibile ai figli e tutti i discendenti, poiché la copia con l’errore passata ai figli viene a sua volta copiata per la trasmissione dai figli ai loro figli.
La mutazione è un fenomeno spontaneo, raro, e viene considerato come un fatto “casuale”, cioè normalmente non prevedibile se non per la frequenza con cui avviene, e che può essere modificata da condizioni ambientali o anche genetiche, ma non è una risposta adattativa all’ambiente specifico. L’unica forza che aumenta sistematicamente ed automaticamente l’adattamemto di una popolazione al suo ambiente di vita è la selezione naturale. Vi sono altre forze evolutive che influenzano la velocità di evoluzione, e sono anch’esse di natura demografica come la deriva genetica (drift, in inglese) che dipende dal numero di individui che formano la popolazione (o, più esattamente dal numero di riproduttori che formano la generazione successiva), e la migrazione fra popolazioni diverse. La specie umana è più facile da studiare sotto questo profilo di quasi qualunque altra poiché è più facile ottenere informazioni demografiche anche storiche; ed è la specie che ci interessa di più. Però la specie umana ha aggiunto una nuova evoluzione a quella strettamente biologica in modo più importante di qualunque altro organismo: l’evoluzione culturale, intendendo per cultura tutto quanto apprendiamo dalla famiglia e dalla società in cui viviamo. Essa può essere molto più rapida di quella biologica perché ha altri metodi di trasmissione, assai più potenti. Quel che viene trasmesso sono le invenzioni , cioè le idee e la loro applicazione alla vita di ogni giorno.
In pratica oggi l’evoluzione culturale cambia sistematicamente la selezione naturale cui siamo sottoposti. La selezione naturale resta però sotto controllo, dato che la nostra evoluzione culturale influenza probabilità di sopravvivenza e fecondità. Basta pensare agli effetti che una guerra nucleare potrebbe avere – non si può neanche escludere la scomparsa della nostra specie.
La Repubblica, 11 febbraio 2009