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“Il mondo capovolto. Emergenti alla guida”, di Loretta Napoleoni

Un quadro complicato dove si trovano in vantaggio i paesi che meno soffrono il debito pubblico e tra questi quelli emergenti, come Cina, Brasile e Russia. Sostenere occupazione e produzione.
L’abilità dei governi si vede nei momenti delle crisi, siano esse a carattere politico o economico. Chi è in gamba riesce a capitalizzare sugli errori del passato ed a trasformare sconfitte in nuove opportunità di vittoria: questa la retorica abbracciata da tutti i politici negli ultimi mesi, incluso il nostro presidente della Repubblica nel suo messaggio di buon anno alla nazione. Si tratta naturalmente di eccellenti propositi, ma quanti governi, oggigiorno, hanno davvero il polso della situazione?

Un’analisi storica delle crisi economiche degli ultimi due secoli e condotta da due economisti americani, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, ci offre una sorta di radiografia dell’economia capitalista in crisi. I sintomi ricorrenti sono tre. Primo: la caduta delle borse comporta sempre una contrazione del mercato immobiliare e di quello azionario. In media il primo scende del 35% per una durata di cinque anni e il secondo del 55% per tre anni e mezzo. Secondo: a tutte le crisi bancarie segue il crollo della produzione e l’aumento della disoccupazione. Il motivo è semplice: scende la domanda di consumo. Il tasso di disoccupazione sale in media di sette punti percentuali per almeno quattro anni. Quello di produzione invece scende del 9%. Terzo: l’impatto peggiore si registra nel debito pubblico che cresce in media dell’86%, valore riscontrato in tutte le crisi del dopoguerra. Il pericolo per chi non sa contenerne la crescita è, naturalmente, la bancarotta.

Il deficit
L’impennata del deficit non ha nulla a che vedere con i piani di salvataggio delle banche o con lo sforzo dello stato per sostenere l’economia, piuttosto è la drastica riduzione del gettito fiscale che la produce. Disoccupazione e contrazione della produzione ne sono le cause principali. Ecco spiegato perchè è imperativo contrastare questi andamenti. Paesi ricchi e poveri presentano gli stessi sintomi – a volte nei secondi la flessione dell’occupazione è minore perchè l’elasticità della domanda è più alta, ma si tratta di poca cosa. La dinamica della ripresa è dunque sempre legata alle politiche anti-congiunturali che i governi usano per contrastare l’uragano recessivo, non alla ricchezza delle nazioni.

Di fronte alla crisi attuale siamo quindi tutti uguali, ma se la storia economica dice il vero allora alcuni paesi sono meglio posizionati di altri per navigare nell’uragano recessivo. Chi, come l’Italia, il Giappone e gli Stati Uniti, parte con un debito pubblico elevatissimo ha poco margine di manovra. E questo spiega le difficoltà del neo eletto presidente americano nel formulare una politica anti-congiunturale organica, un moderno Nuovo Corso, l’America non ha abbastanza soldi per farlo. Ecco quindi che Obama propone manovre isolate che potrebbero nuocere più che risollevare l’economia: taglio delle tasse senza una vera politica di sostegno dell’occupazione; salvataggio dell’industria automobilistica senza un piano di riconversione industriale.

Nessuna di queste misure da sola è infatti in grado di curare i mali della crisi: disoccupazione, recessione e crescita del debito.
L’assenza di una politica anti-congiunturale ha già iniziato a erodere il potere economico degli Stati Uniti. A Parigi durante un convegno su Nuovo Mondo Nuovo Capitalismo, Nicolas Sarkozy dichiara: «Nel XXI secolo un solo paese non può più dire ciò che va fatto o pensato». E ancora: «Ci troviamo in un nuovo mondo che non ha più una sola moneta, il dollaro, ma varie, e che avrà bisogno dell’apporto di altri paesi, come la Cina, il Brasile, l’Africa».

Più servizi
In posizione di vantaggio si trovano infatti alcune economie emergenti: Cina, il Brasile e la Russia che a differenza di quelle dei paesi più industrializzati non hanno debiti pubblici ingenti e dispongono di ampie riserve monetarie. Sono quindi in grado di spendere in programmi anti-congiunturali della portata del classico Nuovo Corso americano. La Russia ha recentemente stanziato 10 miliardi di dollari per potenziare l’istruzione, la sanità e costruire case popolari per i meno abbienti. Nonostante il crollo della Borsa, che ha perso il 60% del valore da settembre, questo sforzo farà gravitare il deficit di bilancio russo per il 2009 intorno al 5% del Pil, una frazione di quello Usa. È la prima volta in 10 anni che la Russia si trova a fronteggiare un debito pubblico di questa portata.

Anche il Brasile è intervenuto per sostenere il settore produttivo e ridurre la disoccupazione. Da settembre ad oggi il governo da speso 240 miliardi di dollari in prestiti al settore agricolo, a quello industriale e per aprire linee di credito all’esportazione. Per stimolare la domanda di beni di consumo si sono tagliate le tasse indirette e di produzione. Il governo ha poi aumentato i poteri della banca centrale che ha venduto dollari sul mercato internazionale utilizzando le riserve monetarie per difendere la moneta nazionale, il rial; ha poi ridotto la quota di contante che le banche devono depositare presso la banca centrale per facilitare acquisizioni e fusioni tra di loro. In questo modo il governo ha evitato la nazionalizzazione in extremis di istituti di credito.

La reazione dei mercati è stata positiva. Nonostante le previsioni del tasso di crescita del Pil russo per 2009 siano scese dall’8% al 2.4%, a gennaio gli investitori hanno iniziato di nuovo ad acquistare azioni ed obbligazioni russe. L’appetito per le economie emergenti si sta risvegliando ed anche il Brasile è tornato di moda. Anche se è presto per parlare di ripresa vera e propria, i governi hanno dimostrato di saper tenere sotto controllo la crisi. Lo stesso non si può dire dei paesi industrializzati.
A novembre, molti preannunciavano un 2009 difficile per le economie emergenti a causa dell’abbandono dei grandi investitori. Ma l’esodo è durato poco. Come previsto da Reinhart e Rogoff la formula vincente per uscire dalla crisi ieri come oggi è il sostegno dell’occupazione e della produzione e un modestissimo debito pubblico.

L’Unità, 2 febbraio 2009