Caro Direttore, nella discussione sul drammatico caso Englaro e sul testamento biologico c’è ancora qualcosa di ambiguo e di faticoso, e si capisce perché. Da un secolo ormai la morte è diventata un oggetto filosofico o letterario da corteggiare mentre la morte concreta (il morire) veniva allontanato dal nostro sguardo impaurito e dalla nostra esperienza domestica. Adesso siamo costretti a parlarne perché il morire è stato pressoché totalmente affidato ai moderni servizi sanitari e sociali. Tali servizi agiscono per via di una formalizzazione delle procedure contenuta in norme, in linee guida, in regole di organizzazione, in deontologie. Grande parte della formalizzazione è affidata al legislatore e all’amministratore.
Eccoci dunque a fare discussioni che non vorremmo fare. Il nostro problema è: a che cosa deve essere ispirata la formalizzazione? Questa domanda pretende una risposta che venga prima dei quesiti sulle singole norme. Per rispondere, non possiamo ignorare quello che gli storici ci certificano. Fino ad un secolo fa il morire è stato un rito domestico e di vicinato, con il moribondo protagonista, con una trasmissione di valori, con la presenza di una rete familiare e amicale a sostegno e a servizio del protagonista secondo la sua volontà espressa o interpretata. Sappiamo altrettanto bene per quali passaggi si è giunti da fine ‘800 a tutto il ‘900 alla espulsione del morire dall’ambiente domestico, alla sua medicalizzazione e, quindi, alla progressiva riduzione di ruolo del protagonista. Non c’è bisogno di percorrere tutte le tappe di questa vicenda; basterà considerarne l’esito. Per secoli in occidente la morte maledetta e temuta è stata quella improvvisa e notturna: esattamente quella che appare oggi una fortuna a noi che temiamo invece la morte ‘irta di tubi’.
Le nostre decisioni di oggi devono dunque recuperare dal lato della umanizzazione ed ispirarsi a criteri di rispetto della centralità del protagonista anche con la mediazione del suo mondo vitale fatto di affetti e relazioni. Una volta espresse le valutazioni di un medico che in scienza e coscienza dichiara l’impossibilità di riabilitare le funzioni vitali, il sapere scientifico e tecnico deve mettersi a confronto e a servizio di quel protagonista reale e di quel mondo vitale e non lasciare spazio alla sperimentazione di filosofie morali, di antropologie o di tecniche di vario genere. In particolare, è veramente impressionante quanto delle nostre scelte, che riteniamo libere, sia in realtà condizionato ed etero diretto dalla tecnica. Anche in questo caso non si tratta di fare omaggio a filosofie del ‘900. Si tratta di una questione pratica. Una nuova e buona tecnica, sospinta dal mercato e dalle esigenze di formalizzazione e standardizzazione dei servizi, tende a diventare obbligatoria, così come in economia un’impresa ambisce istintivamente ad essere monopolista. L’alimentazione, ad esempio, è una funzione umana da un milione di anni. L’alimentazione artificiale è una tecnica comparsa negli anni ’60. Siamo consapevoli di che cosa può produrre la sottovalutazione di questo aspetto? Ho già fatto altrove questo esempio piuttosto brutale: se viene inventato un ventilatore attaccandomi al quale, alla velocità di cento giri al minuto, il mio morire viene prolungato, e se l’Asl lo acquista e se le standardizzazioni lo includono, io sarò costretto ad attaccarmici? E se oggi io dico di non volerlo, perdendo un giorno la coscienza, ci sarà qualcuno costretto ad attaccarmici? Ecco allora il punto: se io dico ‘no’ per oggi e per domani, se dico ‘lasciatemi andare’, se dico ‘così sia’ io non dispongo della mia vita, ma dispongo di una mia tecnica. Ragionare diversamente non significa affermare l’indisponibilità della vita bensì l’indisponibilità del controllo di una tecnica, significa affidare la libertà dell’uomo all’oggetto che ha creato. Ed è veramente paradossale che le nostre giuste cautele verso scienza e tecnica nella fase della vita nascente diventi invece affidamento acritico alla tecnica nella fase finale della vita, quasi che a quel punto l’uomo valesse meno e a poco a poco potesse trasformarsi in un oggetto.
Vorrei che il Parlamento, nel prendere le sue decisioni, si aprisse ad una vera discussione pubblica su questi temi che interessano tutti (ma tutti davvero!) e sui quali la vox populi può indicare ai decisori la strada dell’umanità e della pietà. Per ciò che riguarda la mia parte politica, io sono orgoglioso della discussione che sta avvenendo nel Partito Democratico. E’ assolutamente ingiusto che venga rubricata nel tormentone delle ‘divisioni del Pd’. Si tratta di una discussione profonda e consapevole, che deve portare i gruppi parlamentari ad una decisione meditata e chiara. Al fondo della nostra cultura politica ci sono diversi e forti umanesimi, tutti segnati in ultima analisi dall’irrompere in occidente del Dio personale della tradizione cristiana, che ha cambiato il terreno stesso della discussione sull’uomo; un uomo che non è solo natura e che per questo non è mai separabile dalla sua dignità e dalla sua libertà.
La Repubblica, 28 gennaio 2009