Durante la campagna elettorale del 2008, la parola d’ordine che apre ad Alemanno le porte del Campidoglio è «sicurezza».
Il candidato del centrodestra la declina soffiando sulle paure. A pochi giorni dal ballottaggio, lo stupro di una ragazza nella periferia di Roma, diventa il tema centrale di ogni suo intervento. Coerentemente, nel programma di mandato, approvato il 5 giugno, il neoeletto sindaco spiega che «il miglioramento oggettivo e verificato della sicurezza è una priorità dell’amministrazione».
E, in nome di quell’obiettivo, il 24 settembre rivoluziona, nella disattenzione generale, il corpo amministrativo capitolino per fondare un nuovo ufficio che dipende in modo diretto da lui. Lo chiama «Ufficio extradipartimentale Coordinamento delle Politiche per la Sicurezza».
Lo stesso giorno la supervisione è affidata al generale Mario Mori, prefetto in pensione, già comandante del Sisde, il servizio segreto civile, e del Ros dei carabinieri. Uno dei pezzi da novanta della sicurezza nazionale. «L’esperienza maturata in particolari e delicati settori – spiega la delibera – lo rende una professionalità esclusiva e assolutamente non reperibile all’interno dell’Amministrazione». Tanto esclusiva e unica – ma questo naturalmente la delibera non lo dice – che non è considerato un impedimento che il generale Mori sia stato appena rinviato a giudizio per favoreggiamento nei confronti del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano.
Da allora sono passati quattro mesi. Ieri Roma si è svegliata con un’aggressione shock alle porte della città e un quartiere ancora in rivolta per la donna stuprata mercoledì notte in una strada di periferia senza illuminazione.
Abbiamo chiesto al Campidoglio un bilancio dell’attività svolta finora dal nuovo ufficio. Non abbiamo avuto risposta. E, d’altra parte, Mori non è mai stato convocato dalla commissione consiliare per la sicurezza per parlare dei risultati del suo lavoro. L’unica sua apparizione in commissione risale a settembre.
Se si sa poco del lavoro del generale, anche meno si sa del suo ufficio. La sede non è indicata nei documenti comunali, il sito internet che dovrebbe garantire informazione e trasparenza è «in allestimento». La struttura si è insediata in un palazzo con vista su piazza Venezia, in fondo a via delle Botteghe Oscure. Il portone è sempre sbarrato. A giudicare dai tabulati della Ragioneria Generale non sembra che in quelle stanze si sia prodotto granché: nemmeno le risorse stanziate dalla precedente amministrazione sono state impegnate. Né c’è traccia nei bilanci capitolini dei 10 milioni con cui il Comune si era impegnato a sostenere gli interventi previsti dal Patto per Roma sicura e affidati all’Ufficio di Mori. Eppure, fin dalla campagna elettorale, Alemanno aveva presentato l’ex generale come testimonial e garante di ciò che la nuova amministrazione sarebbe stata capace di mettere in campo per aumentare il senso di sicurezza in città.
Dopo le elezioni in effetti, strategie e interventi sembravano fissati, almeno sulla carta. A questo doveva servire almeno il «Patto per Roma», così viene chiamato, che a fine luglio mette attorno allo stesso tavolo Comune, Provincia, Regione e prefettura. Si tengono una serie di incontri preparatori ai quali partecipa anche il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano. Lo scopo del Patto è dare più mezzi alle forze dell’ordine, definire l’impiego di un numero limitato di militari, programmare una serie di azioni anti-degrado, migliorare il coordinamento nell’ambito dei poteri e delle funzioni ordinarie. Il generale Mori, che non ha ancora alcun incarico ufficiale, dietro le quinte è presente fin da allora. Nessuno rivela la stranezza. Fino a quando, il 15 luglio, Alemanno si presenta alla stipula finale con un documento interamente riscritto. Un vero e proprio blitz: il coordinamento degli interventi non è affidato al prefetto, come appariva scontato, ma a «un delegato del ministro dell’Interno». Una sorta di super-commissario, una specie di sceriffo.
In effetti Alemanno, durante la campagna elettorale, l’aveva già evocato proprio nella persona dell’ex direttore del Sisde. Ma qua ci sono altri enti: non è propaganda, è attività istituzionale. Marrazzo, il presidente della Regione Lazio, e Zingaretti, della provincia di Roma, si oppongono. Il prefetto Mosca rivendica la sua funzione di garante e alla fine riesce a mantenere le redini dell’applicazione del Patto. Ma un’idea suggerita da Mori sopravvive nella versione definitiva siglata il 29 luglio: far confluire tutti i dati delle telecamere posizionate in città in una «Sala Sistema Roma», gestita dal Comune e collegata alle Centrali operative delle forze dell’Ordine.
Ufficialmente, però, Mori compare solo un mese dopo. Il 23 agosto succede un fatto molto grave, il primo da quando Alemanno è sindaco: due cicloturisti olandesi vengono aggrediti in un casale dove si sono accampati.
Alemanno tre giorni dopo si reca sul posto. Al suo fianco,il generale Mori. Il sindaco gli affida il compito di mettere in sicurezza i casali. E il 27 agosto con una ordinanza gli attribuisce «a titolo gratuito» l’incarico di suggerire «progetti e misure per garantire la sicurezza».
La formalizzazione arriva in fretta, dopo meno di un mese. Siamo alla «rivoluzione» di settembre. L’incarico di Mori smette di essere gratuito. Il compenso è di quasi 300.000 euro in tre anni. Al neoistituito dipartimento viene affidata l’attuazione del Patto Roma Sicura: l’attivazione di illuminazione, colonnine Sos, in generale di «strumenti di contrasto al degrado». E la creazione della Sala Sistema Roma. Per ora il Comune non ha nemmeno onorato l’impegno di 10 milioni di euro (come invece hanno fatto Provincia e Regione). Ma della Sala Roma si è parlato ancora lunedì scorso nell’ultima riunione sul Patto in prefettura. L’idea di Mori è che in quella centrale, sotto la sua supervisione, confluiscano anche informazioni provenienti da carabinieri e polizia. Proprio il punto chiave del mancato blitz di luglio. Quello bloccato da Regione e Provincia. E dal prefetto Mosca che però nel frattempo, il 13 novembre su pressione di Alemanno, è stato rimosso.
Intanto l’ufficio di Mori si è ingrandito, ha avuto in assegnazione 10 vigili, e ha assunto altri ex dei Servizi. A dirigerlo, infatti, viene chiamato Mario Redditi, già capo di gabinetto al Sisde. Il suo compenso è di 365mila euro in tre anni. Ad affiancarlo arriva anche un docente della polizia di stato, Giuseppe Italia (compenso 235mila euro). E, ultimo, il 20 dicembre, Luciano Lorenzini (272mila euro).
Cosa abbiano prodotto finora non è dato saperlo. Di Mori si è tornato a parlare pochi giorni fa, quando l’Unità ha pubblicato un’inchiesta sul processo in corso per favoreggiamento nei confronti di Bernardo Provenzano. Alemanno e An hanno fatto quadrato intorno a lui. Il sindaco ha nicchiato di fronte alle richieste del Pd (Morassut e Rutelli) di riferire in aula. D’altra parte la notizia del suo rinvio a giudizio al sindaco era già nota quando lo ha chiamato in Campidoglio. Con quale disegno? Delle due l’una. O i compiti dell’ufficio non sono quelli indicati negli atti ufficiali dell’amministrazione. O se sono quelli, non si capisce perché chiamare un ex capo del Sisde (per giunta indagato per fatti gravissimi) a coordinare i vigili urbani e la videosorveglianza dei luoghi insicuri della città.
“Quelle omissioni coi boss mafiosi“, di Nicola Biondo
Un’omissione è, secondo il vocabolario, «il mancato svolgimento di un determinato compito od obbligo» che si sostanzia «nella mancata esecuzione di un’azione prescritta o nel mancato impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire». La carriera del generale Mario Mori, ex direttore del ROS (Reparto operativo speciale dei carabinieri) e del Sisde (il servizio segreto civile) è da anni sotto la luce dei riflettori in virtù di questo termine: omissione, appunto. Per due vicende cruciali nella storia della lotta contro Cosa Nostra: la cattura di Salvatore Riina e le indagini sul suo successore, Bernardo Provenzano. Nel primo caso l’omissione contestata a Mori fu la mancata perquisizione del covo del boss, nel secondo caso addirittura un mancato arresto.
Il covo di Riina. Era il 15 gennaio 1993 quando i ROS, con la squadra diretta da Sergio De Caprio, il «capitano Ultimo», misero fine alla latitanza del «Capo dei capi». Ma quell’eccezionale operazione venne macchiata da una discutibile scelta investigativa: il covo non fu perquisito e la telecamera che ne monitorava l’ingresso venne disattivata. Solo diciassette giorni dopo l’arresto di Riina le forze dell’ordine entrarono nella villa del boss: all’interno non c’era più nulla. Un gruppo picciotti aveva già portato via tutto, persino una cassaforte, e ridipinto le pareti.
Sulla vicenda si innescò una polemica durissima tra la procura di Palermo, dove si era appena insediato Giancarlo Caselli, e il Reparto operativo speciale. I magistrati sostenevano di non essere stati avvertiti della decisione di eliminare la sorveglianza. Per venire a capo della vicenda ci sono voluti dodici anni. Dopo una lunga indagine, la Procura di Palermo chiese per due volte l’archiviazione del caso ritenendo che fosse impossibile dimostrare che quelle omissioni erano state volute per favorire l’organizzazione mafiosa. Altrettante volte il giudice dell’indagine preliminare rigettò la richiesta: quel processo si doveva fare, le ombre che aleggiavano sulla mancata perquisizione del covo di Riina andavano eliminate.
Il processo si aprì il 7 aprile del 2005. Intanto, nel maggio del 2004, sulla stessa vicenda si era chiuso un altro procedimento: quello intentato da Mori, dal suo braccio destro Giuseppe De Donno e da De Caprio contro due giornalisti, Saverio Lodato dell’«Unità» e Attilio Bolzoni di «Repubblica», accusati di diffamazione a proposito della vicenda del covo. I primi due si ritirarono, andò fino in fondo solo De Caprio che perse la causa: Lodato e Bolzoni, stabilì il tribunale di Milano, «avevano esercitato il dovere di cronaca e di critica con assoluto rispetto».
Il 20 febbraio del 2006 si concluse il processo principale. Il Tribunale di Palermo sentenziò che il fatto, cioè la mancata perquisizione, era certamente avvenuto, ma non costituiva reato. Assoluzione, dunque, ma con motivazioni severe nei confronti degli imputati: «La mancanza di comunicazione e l’assenza di un flusso informativo tra l’autorità giudiziaria ed il ROS (…) appare aver contraddistinto, sotto diversi profili, tutte le fasi della vicenda in esame». Secondo la sentenza, Mori e De Caprio avevano omesso di riferire ai magistrati una serie di informazioni andando al di là dello spazio di autonomia decisionale consentito dalla legge.
Il mancato arresto di Provenzano. È la seconda omissione attribuita a Mori. Secondo l’accusa, il successore di Riina poteva essere arrestato fin dal 31 ottobre del 1995. A indicare il luogo in cui il boss si trovava era stato il colonnello Michele Riccio sulla base delle informazioni fornitegli da Luigi Ilardo, uomo d’onore di Caltanissetta che dal gennaio del 1994 agiva sotto copertura all’interno di Cosa nostra. Ilardo quel giorno si doveva incontrare con Provenzano e due giorni prima aveva avvertito Riccio sul luogo dell’appuntamento. Invece non accadde nulla. Non solo il padrino rimase libero ma tutti i dati sui favoreggiatori della sua latitanza forniti dall’infiltrato, rivelatesi in seguito veritieri, non vennero utilizzati e furono comunicati alla magistratura soltanto molti mesi dopo. Per questo i pubblici ministeri Nino Di Matteo e Antonio Ingroia hanno chiesto e ottenuto lo scorso luglio il rinvio a giudizio del generale e di uno dei suoi più stretti collaboratori, il colonnello Mauro Obinu. Con un’accusa pesantissima: favoreggiamento nei confronti dell’associazione criminale Cosa nostra. Il processo è in corso.
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