Persino Al Jazeera l’ha raccontata. Un bel documentario sulla resistenza italiana dando voce alle donne, trasmesso per il mondo arabo qualche anno fa. E da noi? Ci si ricorda giusto per le feste comandate. E il punto è sempre quello, ieri come oggi: «Il maschilismo… Altroché se c’era. Seppure noi rischiavamo la vita come i nostri compagni, dovevamo sempre dimostrare di essere più capaci degli uomini». Oggi Walchiria Terradura, medaglia d’argento al valor militare, ha 85 anni e ancora il piglio della combattente. Gli occhi verdi si accendono di una luce ancora più viva quando segue il filo della memoria. Ricordi di partigiana, di «ragazza col fucile» che durante la resistenza sui monti del Burano ha comandato una squadra di sette uomini (Il Settebello) che faceva parte della brigata Garibaldi-Pesaro. «Quando mi hanno scelto a capo della squadra – racconta – Gildo, uno dei compagni, per solennizzare l’avvenimento, mi regalò una pistola dicendo: “Ti avrei dovuto offrire dei fiori, ma vista la situazione… A primavera coglierò per te i più belli”».
Walchiria non è che una delle protagoniste, come tante altre partigiane, staffette e contadine, di questa pagina di storia, la resistenza, che, nonostante la «sordina» della storiografia ufficiale, oggi è noto: non si sarebbe potuta compiere senza l’intervento delle donne. E i numeri parlano chiaro: 35.000 partigiane nelle formazioni combattenti, 20.000 staffette, 70.000 organizzate in gruppi di difesa. 638 le donne fucilate o cadute in combattimento, 1750 le ferite, 4633 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 le deportate in Germania. Cifre che «raccontano» per difetto. Perché come spiega la stessa Terradura, «quella delle donne è stata una partecipazione diffusa, spontanea. La contadina che ci dava un piatto di minestra, o ci faceva nascondere in casa rischiava la vita proprio come noi».
Eppure questa è stata una memoria taciuta a lungo. «E quante sono ancora oggi le donne della resistenza rimaste nell’ombra?», commenta Teresa Vergalli, classe 1927, della provincia di Reggio Emilia e autrice del libro Storie di una staffetta partigiana. «A parte i nomi celebri di coloro che dopo la guerra hanno incrociato la strada della politica, tante partigiane sono state zitte. In certi casi sono stati gli stessi mariti che non avevano piacere se ne parlasse. C’era addirittura una sorta di vergogna, soprattutto per quelle poverette che sono state torturate….». Invece dell’indignazione contro i torturatori la «vergogna». Alle donne, infatti, scrive Teresa, nome di battaglia Annuska, «venivano riservate cose terribili. Di cui i particolari li abbiamo saputi a guerra finita». Tanto che lei teneva sempre con sè una piccola pistola «con la quale mi illudevo mi sarei potuta tirare un colpo alla testa nel momento mi avessero catturata o torturata». La paura di essere prese era costante. Eppure per molte la scelta di stare contro il nazifascismo era «naturale». Come racconta Luciana Baglioni Romoli, partigiana romana «bambina». Il suo primo atto di «ribellione» fu alle elementari quando la sua maestra, «ligia alle leggi razziali», legò per le treccine ad una finestra della classe una ragazzina ebrea. Per Luciana fui istintivo «scagliarsi contro l’insegnante» e guidare la «rivolta». Il risultato fu l’espulsione da scuola e da lì, negli anni successivi, il suo sostegno alla resistenza romana: «in bicicletta – racconta – a portare messaggi o a buttare i chiodi a tre punte per le strade per far scoppiare le ruote dei nazisti».
Un po’ come è accaduto alla più «nota» Marisa Rodano, che scelse la strada del Pci: «Non sono discesa da una tradizione familiare – racconta -, anzi mio padre aveva fatto la marcia su Roma. Ho cominciato all’università, dopo aver visto cacciare due studenti colpevoli di essere ebrei. Con alcuni compagni abbiamo costituito un piccolo gruppo, nel 1943 sono stata arrestata per la pubblicazione di un foglio comunista, si chiamava Pugno Chiuso, era il primo numero e sarebbe rimasto l’unico. Il 25 luglio sono uscita dal carcere e di lì a poco sono entrata nella Resistenza». Sono tanti i ricordi delle donne. E pieni di coraggio. «Nell’aprile 1945 ero incinta, il mio compagno era appena stato ammazzato dai fascisti – racconta Lina Fibbi, tra le fondatrici dei Gruppi di Difesa delle donne, sindacalista e poi parlamentare del Pci. «Longo mi incaricò di smistare a Milano l’ordine di insurrezione generale del Cln. Io andai: in bicicletta, con il pancione e con una grande paura». Ma erano scelte. Come conclude Teresa Vergalli: «Ora si guarda con una certa comprensione ai ragazzi di Salò, perché anche loro sarebbero stati in buona fede. Ma anche noi partigiani eravamo ragazzi, e stavamo dalla parte giusta! Quella della pace. Ed è una differenza che non bisogna mai dimenticare».
La storia delle partigiane l’ha raccontata da cineasta anche Liliana Cavani, classe 1933: il suo viaggio nella liberazione al femminile l’ha comppiuto nel ‘64 con Le donne della resistenza, straordinario documentario realizzato per la Rai. «Le donne nella resistenza hanno avuto un ruolo fondamentale – racconta Cavani -, erano contadine, operaie, borghesi che sceglievano la lotta in piena coscienza: non solo contro il fascismo e gli occupanti nazisti, ma anche per rivendicare il diritto alla loro partecipazione attiva nella società che si sarebbe costruita».
Le combattenti italiane, testimonianza da salvare
Voci di donne dalla resistenza. Partigiane, combattenti, ragazze armate: testimonianze da salvare, subito perché sono le ultime protagoniste di una stagione di libertà. Come Steven Spielberg ha raccolto nella Shoah foundation le voci degli ultimi sopravvissuti di Auschwitz, ecco l’archivio audiovisivo con i racconti delle partigiane di tutta Italia. Il progetto si chiama «Voci di donne dalla resistenza» in via di realizzazione con l’Associazione culturale Antonello Branca.
35mila partigiane, 683 le fucilate: tutti i numeri di un’epopea
Delle donne partigiane di tutta Italia delle quali la storiografia ufficiale poco o niente si è occupata. Eppure i numeri parlano chiaro: 35.000 partigiane nelle formazioni combattenti, 20.000 staffette, 70.000 organizzate in gruppi di difesa. 683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le ferite, 4633 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 le deportate in Germania.
Da Cavani a Sangiovanni i documentari d’autore
Un flusso di conoscenze per tenere insieme la memoria di ieri e di oggi. Per esempio: dal documentario di Liliana Cavani, «Donne nella resistenza» del ’64 a «Staffette» di Paola Sangiovanni del 2006. Quest’ultimo mette insieme i racconti di quattro staffette piemontesi (Claudia Balbo, Anna Cherchi, Marisa Ombra e Nicoletta Soave) a confronto con una memoria che non è quella immutata delle diciottenni di allora, ma di donne ormai anziane.
L’Unità, 22 gennaio 2009
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