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“Veltroni: «Ora spazio alla green economy»”, di Alberto Orioli

E ora l’economia riparte? Nel giorno delle iperboli emozionali, dei riti di popolo e di teleschermo per l’insediamento di Barack Obama diventa lecito interrogarsi su come il “sogno” possa trovare percorsi reali. Walter Veltroni, leader del Pd e antesignano sostenitore di Obama (fa fede la prefazione all’edizione italiana del libro «L’audacia della speranza» dove gli riconosceva quel mix tra capacità visionaria e pragmatismo, diventati i pilastri del successo), risponde così: «C’è stato il tempo dell’auto, quello delle tlc. Ora sarà la green economy a rilanciare lo sviluppo. Penso a un grande piano sovranazionale e a programmi nazionali su più anni per dare vita a una gigantesca operazione di rottamazione del petrolio. Lo annuncia Obama, lo potrebbe realizzare anche l’Italia. Abbiamo il know how necessario – e forse anche più sviluppato che in altri Paesi – per far fronte a investimenti nei campi dell’energia sostenibile e nei motori di nuova generazione».

La crisi però è prima di tutto finanziaria.
È chiaro che l’effetto-Obama ci sarà in generale. Il fatto stesso che la crisi finanziaria sia caduta nel passaggio tra le due presidenze americane ha creato un moltiplicatore della crisi stessa. E la difficile gestazione al Congresso del primo piano Paulson ne è la dimostrazione. Ma saranno le stesse idee di Obama a ridestare la fiducia: ha in mente di affrontare dalle radici questa recessione. Che è finanziaria ma non solo: finora le centinaia di miliardi destinati dai Governi di mezzo mondo al sistema bancario non hanno avuto l’effetto voluto di un ritorno della liquidità all’economia reale. Qualcuno ha addirittura parlato di sciopero dei banchieri. E quando Obama dice che è tempo di passare da Wall Street a Main Street intende dire proprio che affronterà le conseguenze della crisi sull’economia reale.

Le banche sono nel mirino del Governo. Chi ha sbagliato a casa o in galera, dice Tremonti. È d’accordo?
Sicuramente c’è stata una grandissima sottovalutazione della crisi e anzi il ripetersi per anni di comportamenti che hanno alimentato un castello di carte crollato miseramente, una ricchezza solo virtuale che produce però danni reali, con conseguenze a volte drammatiche nella vita delle persone. Bisogna voltare pagina.

L’Europa è in forte recessione ma l’Italia sta meglio.
Lo dice Tremonti ma è una frase da campagna elettorale non da chi vuole risolvere i problemi. I dati europei, che confermano quelli della Banca d’Italia, non sono «congetture». Sono lo scenario con cui chi ha responsabilità politiche deve misurarsi fino in fondo. Il circuito della fiducia non si attiva con il marketing o nascondendo le cifre, ma annunciando e attuando politiche condivise che aggrediscano i punti di maggiore sofferenza, ad esempio la garanzia di un reddito per i nuovi disoccupati e lo sblocco dei pagamenti della pubblica amministrazione. Purtroppo il governo non ha avuto il coraggio di dare risposte vere su nessuna delle due questioni nel decreto anti-crisi. È questo che fa male alle aspettative dell’economia, non le previsioni delle istituzioni preposte al monitoraggio dell’economia italiana ed europea.

C’è il problema delle risorse. L’Italia non ne ha e non può permettersi di sforare i tetti Ue.
Veramente noto che anche l’Italia, come altri Paesi europei, sfonderà i limiti di Maastricht ma purtroppo, mentre gli altri lo avranno fatto a fronte di grandi piani di rilancio, noi saremo fuori limite pur avendo fatto poco o nulla.

Il Pd ha proposto un piano da un punto di Pil. Ma sarebbe credibile solo se fosse accompagnato dalle riforme strutturali. Ve la sentireste di votare una nuova riforma pensioni?
Confermo la necessità di dare vita a un piano da un punto di Pil, 16 miliardi appunto. Un piano strategico, però, non i francobolli del Governo Berlusconi. All’Italia servirebbe un quadro di scelte di lungo periodo su welfare, giustizia, formazione, ambiente e anche sul riassetto istituzionale. Le pensioni? Penso a una riforma del welfare complessiva che riveda anche l’indennità di disoccupazione: ci sono due milioni di precari e quasi sette milioni di lavoratori a tempo pieno che rischiano di non poter avere una tutela in caso di perdita del posto. Per la previdenza credo si debba andare verso soluzioni improntate alla filosofia della libertà di scelta: che un lavoratore possa scegliere di andare in pensione prima, con un assegno più basso, o dopo, a fronte di un assegno di quiescenza più alto, credo faccia parte del tipo di flessibilità di cui abbiamo bisogno. Penso a soluzioni di questo tipo piuttosto che a obblighi di innalzamenti forzosi dell’età pensionabile. Eppoi va rispettato quanto previsto per l’adeguamento dei coefficienti che darebbe un po’ di respiro ai conti pubblici.

L’Italia propone di creare una grande «bad bank» in cui far confluire i derivati e la “finanza cattiva” per smaltirla nel corso degli anni, lasciando che la “finanza buona” torni a esercitare il suo compito senza più rischi pendenti e imponderabili. Che ne pensa?
Siamo stati tanto criticati quando non accettavamo l’iperliberismo o contestavamo le tesi di chi predicava l’orizzonte nazionale o addirittura regionale quando parlava di globalizzazione. Sono gli stessi che oggi si riscoprono statalisti e mondialisti. C’era la destra, quella contraria ai lacci e lacciuoli, quella dello Stato minimo, della libertà d’impresa sopra tutto che oggi dice il contrario. La soluzione Tremonti della «bad bank» peraltro è una misura già praticata in alcuni dei grandi salvataggi finanziari di questi mesi ma non ha dato i risultati sperati sull’economia reale. Presuppone tra l’altro un’idea di governo mondiale dell’economia che è stata sempre osteggiata dal centro-destra.

Però è vero che c’è stato un problema di speculazione. Se fosse al Governo e presiedesse il G8 non affronterebbe anche lei il tema delle regole?
Certo che lo affronterei: credo che occorrano le regole e che aver fatto prevalere l’idea dello Stato minimo in queste cose sia stato un errore. Comunque a me capitò di dire, in tempi diversi da quelli di oggi, che c’era un eccesso di finanza nell’economia e non solo da noi. L’economia di carta che ha finito con il prevalere su quella delle imprese e delle fabbriche. Un fenomeno globale, ma anche molto italiano che ha fatto crescere nel tempo figure imbarazzanti di raider di varia natura. Che con il click su un computer speravano magari di impossessarsi dei grandi giornali.

Erano anche i tempi in cui c’era il “tifo democratico” per i furbetti del quartierino…
Veramente il Pd non c’era. Ma, da che mondo è mondo, il pensiero democratico tifa per il lavoro, il sacrificio, il talento, la voglia di rischiare.

Caso Napoli: una pagina nera per gli intrecci tra politica e affari.
L’abbiamo voltata quella pagina. A cominciare dalla prossime elezioni provinciali ci sarà personale politico nuovo, nuove energie. Un partito diverso. L’ho detto chiaramente: innovazione di persone e programmi e poi basta col partito degli “ex”, ex Ds, ex Margherita. Finito.

Certo, chi tenta di creare il Partito democratico riformista e pro-mercato si trova alle prese con il lato oscuro del mercato. E rischia di trovarsi assediato da chi torna a citare Marx da destra e da sinistra.
Il problema dell’Italia è che non ha mai avuto una storia riformista: non c’è mai stato nulla di paragonabile a una Thatcher o a un Blair, a un Brandt o a un Aznar. Ci sono stati due brevi periodi di innovazione politica: il primo centro-sinistra e il primo Governo Prodi, non a caso prematuramente interrotti. E questo ha impedito al Paese di avere quella cultura delle riforme che si misura su un ciclo politico in grado di gestire anche contrasti forti con parte dell’opinione pubblica. L’Italia oggi avrebbe bisogno di questo, invece c’è un Governo che ha una larga maggioranza nel Paese e poi deve fare 32 decreti e abusare del voto di fiducia.

Però c’è anche chi nel Partito democratico guarda a Marx come padre nobile…
Io non tornerò a citare Marx. Sento forte la conferma di quello in cui credo da anni: non mi va di partecipare a questa gigantesca gara trasformistica che avviene con una disinvolutra imbarazzante. Ho sempre pensato che tanti anni di storia ci hanno consegnato un ‘900 portatore, spesso a prezzo del sangue, della democrazia come valore supremo della politica. Lo stesso accade per il mercato come mezzo per la trasmissione del benessere e dell’emancipazione. Certo, quando penso al mercato penso anche alle regole e ai controlli, penso alla funzione per la mano pubblica di contrasto alle diseguaglianze e alle ingiustizie e di presidio per i beni e i servizi pubblici essenziali. Tutto quello che è accaduto non mi farà convincere della necessità di una presenza oppressiva dello Stato nell’economia (che poi significa solo i partiti nell’economia). Finora semmai è mancata la capacità di regolazione o quella “intelligenza complessiva delle cose” come la chiama il cardinale Martini. Tutto serve tranne tornare al liberismo o al comunismo. La vera sfida è promuovere le opportunità e contrastare le disuguaglianze.

Per stare al concreto cosa significa?
Istruzione di qualità per tutti, a partire dai primi anni di scuola e opportunità di formazione continua, costruzione di un nuovo welfare che si regge su una rete di servizi potenziati e quindi su asili nido, assistenza ai disabili o agli anziani, e sull’estensione di tutele come il sussidio in caso di disoccupazione a chiunque perde il proprio posto di lavoro, un contesto di regole chiare e di opportunità che possa consentire ad ognuno di dare il meglio.

Nord-Sud. Il Governatore Lombardo denuncia il rischio che i fondi del Sud vengano “scippati” per la gestione delle crisi delle imprese del Nord.
È stato grave assistere durante il dibattito in Parlamento sul decreto anti-crisi allo scontro tra i due leghismi della maggioranza: il Governo finisce per essere come quel personaggio che rischia di finire squartato perché legato a quattro cavalli che tirano in direzioni opposte. Sono preoccupato per lo sfarinarsi dello spirito del Paese, un Paese impaurito, bloccato. E a farne le spese sono soprattutto le piccole e medie imprese, cui invece il Partito democratico guarda, fin dalla sua costituzione, con grande interesse perché sono la vera forza propulsiva dell’economia del Paese.

Parliamo di grandi imprese. Se fosse stato al Governo avrebbe varato gli aiuti all’auto?
Io spingerei per una soluzione europea congiunta. Non è immaginabile che alcuni Paesi scelgano la via degli incentivi e altri no. Se gli Usa o la Cina o grandi paesi europei decidono di sostenere l’auto e l’Italia no significa che la Fiat muore. E con essa un pezzo importante del mondo produttivo italiano. Credo tuttavia che la soluzione debba essere globale e che non si tratti di trovare soluzioni vecchio stile. Penso a sostegni mirati alla riconversione ecologica delle produzioni e a fondi per aumentare di molto gli investimenti in ricerca e in qualità. Del resto è questo il nuovo indirizzo che arriverà anche dagli Usa.

Il Sole 24Ore, 21 gennaio 2009

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