Le grandi speranze riaccese da Obama, alla vigilia della cerimonia inaugurale di martedì che lo insedierà alla Presidenza, somigliano non poco alle Grandi Speranze che accompagnano Pip, il protagonista del romanzo di Charles Dickens. Solo in apparenza il romanzo racconta una promessa di palingenesi personale, sociale: quel che narra è in realtà un faticoso apprendistato, un addestramento alla realtà. Pip, come Obama, deve imparare a camminare da solo, e soprattutto evitare d’esser «tirato su per mano» da tutori invadenti, paternalisti. Pip è figlio d’operai, ha scarpe grosse, mani brutte. La sua vita cambia quando uno sconosciuto benefattore gli lascia i suoi beni dandogli, appunto, Great Expectations. Ma il cambiamento vero dipende da lui, da quel che farà della donazione.
Come ha scritto Kissinger sull’Herald Tribune: la magica ascesa di Obama «definisce un’opportunità, non una politica».
Il mondo che Obama eredita gli s’accampa davanti pieno di rovine, e profondamente equivoco. Anche quello di Bush si nutriva infatti di Grandi Aspettative. Ma erano promesse immateriali, capziose, che non hanno insegnato nulla all’America e anzi l’hanno corrotta, sostituendo alla realtà l’ideologia. È un mondo che ha prodotto una «mescolanza letale di arroganza e ignoranza», scrivono Robert Malley e Hussein Agha sul New York Review of Books del 15 gennaio, nel descrivere la strategia Usa in Medio Oriente. C’è del miracolismo anche nell’attesa di Obama, rafforzato dal fatto che egli è il primo Presidente nero e che corona una storia dentro la storia nazionale, che lo collega non solo a Abramo Lincoln ma a Martin Luther King. Il suo apprendistato sarà duro perché dovrà rispondere alle Great Expectations e al tempo stesso non divenir ostaggio di chi pretende d’averlo fatto re, «tirandolo su per mano». Percepito come messia, egli deve al tempo stesso spezzare i messianesimi che da secoli catturano le menti americane.
L’apprendistato non può avvenire dunque che in solitudine, sotto forma di una vasta disintossicazione che salvi la speranza ma sappia anche spegnerla quando è irrealistica. Sono tante e svariate le sostanze tossiche di cui toccherà depurare l’organismo, e come in medicina urgono terapie radicali: dalla somministrazione di antidoti alla trasfusione del sangue all’inalazione di ossigeno. In politica occorre cambiare i paradigmi, come usano dire gli esperti in finanza; congedarsi dalle illusioni d’onnipotenza e dalle ideologie che dominano la politica estera, militare, climatica. Così poliedrico è il cambiamento richiesto che il paragone con la trasfusione sanguigna non è azzardato.
Le sostanze tossiche non hanno avvelenato solo gli otto anni di Bush. Sono decenni che lo Stato americano fabbrica bolle, ipnotizzato dal miraggio d’una forza autosufficiente e universalmente egemonica. In economia ha immaginato di poter vivere indebitandosi smisuratamente, consumando senza criterio, e fidandosi d’un mercato che magicamente si autoregola; in politica estera e militare ha creduto di poter modellare il pianeta secondo una propria idea del bene e del male, e non secondo l’utilità considerata opportuna dal maggior numero di soggetti. È qui che l’arroganza s’è unita all’ignoranza, impedendo agli Usa di considerare gli interessi di altri Paesi e di nuovi potentati locali; di riconoscere i propri limiti oltre che i limiti, in genere, dello Stato-nazione alle prese con mali e sfide che non è più in grado di padroneggiare da solo.
La stoffa della bolla è antica perché risale all’idea dell’America «faro sulla collina», votata a civilizzare il mondo, dotata di incorrotta supremazia morale e politica. Il continuo parlare di carote e bastoni è parte di questa presunzione, umiliante per i popoli destinatari: nessuno – tranne forse Al Qaeda – parlerebbe così dei rapporti con Washington. Non è vero che Bush s’è disinteressato al Medio Oriente, all’Iran, all’Asia, all’Europa. Secondo Malley e Agha se n’è interessato fin troppo, diminuendo ad esempio in Israele il senso della propria responsabilità, dei confini geografici, del limite: i progressi, Israele tende a compierli quando Washington latita, e a mediare sono magari gli europei o i turchi. Lo stesso dicasi per la Russia: i cui ricatti o soprusi (nel Caucaso, sul gas) sono possibili perché l’America promette un fiancheggiamento e una presenza – in Georgia, Ucraina – del tutto ingannevoli.
È il motivo per cui i realisti, in Israele, chiedono oggi a Obama di cominciare finalmente a parlare con le forze generatrici dei conflitti, anche se nemiche mortali d’Israele come Hamas, Hezbollah, Iran. («Vada avanti per la sua strada, Presidente, non ascolti nessuna lobby», scrive Yossi Sarid su Haaretz). In un importante articolo sul New York Review of Books, tre autori (William Luers, Thomas Pickering, Jim Walsh) sostengono che l’Europa dovrebbe costruire con Teheran un consorzio, favorito da Obama, che produca uranio arricchito in Iran (la formula multinazionale ha il vantaggio di implicare controlli multinazionali). Obama, intanto, dovrebbe avviare con Teheran colloqui senza precondizioni, dopo le presidenziali iraniane di giugno, tenendo conto degli interessi di ambedue: l’Iran è essenziale per pacificare l’Iraq e anche l’Afghanistan, essendo ostile ai talebani sunniti. Le sanzioni non rischiano di fallire: già son fallite. Così come son fallite le guerre di Bush: perché hanno generato caos nel mondo invece di stabilità, soddisfacendo solo nel brevissimo periodo il desiderio Usa di dominarlo.
I neocon che hanno scommesso su Bush hanno condotto per anni una personale e accanita guerra contro la realtà, creando miti a ripetizione. Un episodio lo prova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush (era Karl Rove) gli disse: «Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora» (New York Times, 17-10-04). La reality-based community viveva di fatti, mentre chi vive nello show mistificatorio li trascende, fino a quando la realtà si vendica.
La rottura con la realtà si è rivelata contagiosa: sin d’ora e nei prossimi anni converrà ricordarlo. La chimera dello Stato-nazione autosufficiente, la prepotenza congiunta all’ignoranza, il rifiuto di negoziare, la predilezione del breve termine rispetto al lungo, l’abitudine a violare la legalità internazionale: sono veleni di cui deve disintossicarsi l’amministrazione americana ma anche l’Europa, il mondo. Tanto più prezioso è l’annuncio di Obama: rispetterà le convenzioni internazionali sulla tortura e i prigionieri di guerra; chiuderà Guantanamo.
Sono i civili a pagare infatti chimere e menzogne. Pagano in economia, perché il fondamentalismo del laissez-faire ha colpito la gente comune e non solo Wall Street. Pagano a Gaza e nel Sud d’Israele, col sangue, la morte o il terrore. Pagano in Europa, dove milioni di cittadini gelano perché i nazionalismi russo e ucraino non sono imbrigliati da accordi multilaterali.
Ha scritto lo storico Andrew Bacevich che i grandi americani sono di rado ascoltati in patria, perché dicono cose realiste e per questo sgradite, poco trascinanti (The Limits of Power: The End of American Exceptionalism, New York 2008). Fa parte della disintossicazione riscoprire quella tradizione. È nella solitudine che Obama potrà ritrovare il realismo di Reinhold Niebuhr, il teologo profeta che nel secondo dopoguerra denunciò l’eccezionalismo americano e «il sogno di manipolare la storia, nato da una peculiare combinazione di arroganza e narcisismo: una minaccia potenzialmente mortale per gli Stati Uniti».
La Stampa 18.01.09
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