Sedicesimi su 19 Paesi, ma esportiamo tecnologia. Ultimi per laureati e ricercatori, primi per telefonini
In apparenza, fra il 2007 e il 2008 è cambiato molto poco. La nuova edizione del Rapporto «Innovazione di sistema» elaborato dalla Fondazione Rosselli in collaborazione con il Corriere della Sera conferma la supremazia nordeuropea e americana nella classifica dei Paesi più capaci di creare le premesse per sviluppo e competitività. Vale a dire quei Paesi in grado di usare al meglio il capitale umano, la ricerca scientifica, ma anche di modernizzare infrastrutture come rete ferroviaria e banda larga di Internet, di produrre brevetti ed alta tecnologia. La Svezia mantiene il primato assoluto, la Finlandia sale dal terzo posto del 2007 al secondo nel 2008, la Danimarca scende dal secondo al terzo, gli Usa si confermano quarti e la Gran Bretagna quinta, seguiti da Olanda, Giappone, Belgio, Canada. L’Italia si ritaglia il sedicesimo posto sul totale dei 19 paesi dell’Ocse presi in considerazione. Rispetto all’anno prima, quand’era 17ma, ha compiuto dunque un piccolo passo avanti, anche se non sufficiente per affrancarsi da quel plotone di nazioni «scarsamente innovative» che comprende, come sempre, Portogallo (sceso dal 16mo al 17mo posto), Grecia (salita dalla 19ma alla 18ma posizione) e Russia (scesa dalla 18ma alla 19ma).
La forza dei privati
Ma il quadro che ne emerge non è solo a tinte scure. «La nota positiva del rapporto 2008 è data dalla vitalità mostrata dal settore privato, vale a dire la capacità delle imprese di esportare brevetti e innovazione — osserva Riccardo Viale, responsabile della Fondazione Rosselli —. Per la prima volta assoluta, infatti, l’Italia fa registrare una “bilancia tecnologica” positiva. E a questo si aggiunge il raddoppio dell’attività di venture capital, segno che sono stati individuati progetti da finanziare più interessanti rispetto al passato». Aumenta insomma la capacità di commercializzare le proprie competenze tecnologiche sul mercato internazionale tramite brevetti e licenze. Un caso per tutti resta sempre il fenomeno Geox. Ma anche la capacità di franchising dimostrata da gruppi come quello Benetton. E la capacità di assorbire innovazioni tecnologiche realizzate all’estero da ingegnerizzare e poi ricommercializzare. Anche qui un caso per tutti, quello di Acotel, l’inventore di fatto del fenomeno sms telefonici. O, la capacità di gestire marchi di un gruppo come Autogrill che negli aeroporti americani conduce negozi con brand del calibro di Starbucks. Detto questo dal rapporto emergono anche due elementi nuovi che promettono di avere conseguenze decisive da qui in avanti. L’Italia, in particolare, continua a perdere colpi proprio in quelle «aree» individuate dalla ricerca della Fondazione Rosselli in cui i ritardi odierni rischiano di trascinarsi (amplificandosi) nel corso del tempo, fino a formare un incolmabile gap di competitività rispetto alle nazioni più avanzate. Si va dall’ormai cronica carenza di investimenti in ricerca al basso livello del «capitale umano», al sempre più evidente «analfabetismo» tecnologico della popolazione.
Gli investimenti tagliati
Siamo all’ultimo posto assoluto nella classifica 2008 per quanto riguarda la qualità del capitale umano, terz’ultimi in termini sia di «sostegno finanziario alle attività di ricerca», sia per «dotazioni infrastrutturali di base», sia per l’«efficienza dei processi di trasferimento tecnologico tra università e imprese». E ancora: ultimi per percentuale di popolazione laureata, per numero di ricercatori scientifici, penultimi per esportazioni di tecnologie. Secondo Viale, stiamo pagando in pieno il ruolo «molto negativo» svolto dallo Stato nel corso degli anni, segnato da investimenti in innovazione sempre più esigui. Ma ci troviamo anche con il nostro (leggendario) sistema di piccole e medie imprese arretrate tecnologicamente e con una popolazione che, come sempre, detiene il record assoluto di penetrazione di telefoni cellulari (anche nel 2008 gli italiani sono i primi in classifica) ma che pare più propenso a usare queste tecnologie per chiacchierare con parenti e amici anziché per usufruire di servizi internet (qui la classifica ci vede solo in 14ma posizione). Anche se il «sistema paese» mostra una capacità reattiva per esempio nei tempi di apertura di nuove attività. Il tempo medio in Italia è 60 giorni, come l’Olanda, inferiori quindi ai 78 inglesi o i 162 tedeschi, seppur lontani anni luce dai soli 5 giorni necessari in Canada o i 35 francesi e i 36 statunitensi. Un elemento potenzialmente in grado di rimescolare lo scenario dell’innovazione mondiale è legato all’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca, con i suoi dichiarati progetti di investire crescenti risorse in ricerca scientifica e tecnologica.
La nuova fase degli Usa
Negli Usa, insomma, sembra destinata a chiudersi una lunga fase, durata per tutta l’amministrazione Bush, in cui ha prevalso quella corrente di pensiero che rifiutava il «tecno-feticismo» per attribuire maggiore importanza alla capacità di sfruttare nel modo più efficiente qualsiasi «invenzione» creata altrove, e mantenere così la supremazia americana nell’economia globale. Detto in altre parole, le nuove tecnologie si possono comprare in Cina come in India, senza darsi tanto la pena di inventarle in casa propria. In questa direzione vanno, per esempio, le idee espresse nel suo «The venture some economy» da Amar Bhidé, docente di business alla Columbia University di New York. Per misurarne gli effetti basta pensare al più recente rapporto dell’Ocse, da cui emerge che, su mille miliardi di dollari spesi l’anno scorso in ricerca e sviluppo (nei campi dell’informatica, delle telecomunicazioni e in generale dell’elettronica), solo un terzo ha avuto come epicentro l’America. E che se fra il 2001 e il 2006 gli investimenti in ricerca delle grandi industrie di Usa ed Europa sono cresciuti solo fra l’1 e il 2%, quelli della Cina hanno fatto un balzo del 23%.
Aspettando Obama
Obama promette ora un approccio diverso. Che è potenzialmente in grado di trainare nella stessa direzione le altre economie «innovative» del mondo. Per l’Italia, dove (con buona pace della dimenticata «scuola» di Adriano Olivetti) sia la classe politica sia buona parte dell’establishment imprenditoriale hanno in un certo senso fatto da precursori delle teorie «bidheiane», si tratta di un cambiamento ad alto rischio. «Se si rivelerà per quello che annuncia di voler essere, la presidenza Obama potrà darci la scossa necessaria a uscire dal letargo — osserva Viale —. Altrimenti saremo condannati a diventare un paese sempre meno competitivo».
Il Corriere della Sera 04.01.2009