dal Corriere della sera del 15.12.2008
Caro Direttore, a partire da oggi inizia alla Camera l’esame del cosiddetto «decreto Gelmini» sull’Università, già approvato al Senato. Con le vacanze alle porte e un cumulo di decreti in scadenza, esistono pochi margini, che tuttavia andrebbero sfruttati con grande senso di responsabilità da parte di maggioranza e opposizione, per migliorarne i contenuti e avviare una seria discussione bipartisan sulla riforma del sistema universitario. In questo caso le liturgie barocche del bicameralismo perfetto potrebbero tornare utili.
Che il decreto abbia bisogno di miglioramenti lo ha rilevato anche l’ufficio studi della Camera e lo hanno detto, la scorsa settimana in Commissione cultura, componenti autorevoli dei gruppi Lega Nord e Pdl, i quali hanno segnalato la necessità di sanare quanto meno alcune ambiguità interpretative del testo riguardo ai concorsi, a costo di rinviarlo in terza lettura al Senato. Se questo accadesse, e se i passi indietro sulla politica dei tagli a prescindere fossero un po’ meno aleatori, anche il Pd sarebbe indotto a ripensare l’atteggiamento tenuto in prima lettura, dato che il decreto presenta aspetti apprezzabili.
Come era stato chiesto dall’opposizione, vengono accresciuti, ma incomprensibilmente per un solo anno, il fondo per il sostegno alla mobilità degli studenti e quello per le residenze universitarie. Si consente la chiamata diretta, incentivata da sgravi fiscali contenuti in un altro provvedimento, per attrarre ricercatori stranieri o ricercatori italiani che lavorano all’ estero. Si introduce il principio per cui una parte dei fondi statali siano assegnati sulla base di indicatori dell’offerta didattica e della produzione scientifica.
Il decreto non toglie il macigno che pesa sui bilanci universitari per il 2010 a causa dei tagli lineari imposti prima con il decreto Ici e poi con la manovra estiva. Al netto di questo problema, tutt’altro che marginale, introduce elementi compatibili con un disegno più ampio di riforma a cui anche il Pd è attivamente interessato. Si consideri che le linee guida sulla riforma universitaria presentate in novembre dal ministro Gelmini hanno parecchi elementi in comune con il decalogo esposto poche settimane prima dal Pd.
D’altro canto uno dei più accreditati collaboratori del ministro, estensore di quelle linee guida, è il professor Alessandro Schiesaro, persona assai competente, che ha collaborato in passato anche con il Pd. E si deve anche considerare che esiste ormai una «policy community» trasversale, una rete fatta di operatori, esperti, politici specializzati in questo settore, alcuni dei quali oggi distribuiti tra Camera e Senato, per lo più ricercatori con qualche esperienza di sistemi universitari stranieri, ben consapevole della sfida che l’Università italiana deve affrontare per rimettersi al passo della comunità scientifica internazionale, per riacquistare il ruolo e il prestigio necessari per un grande paese avanzato come il nostro. C’è consenso, in questo circuito trasversale, ad esempio, sulla necessità di passare da un allocazione delle risorse statali per l’università interamente basata sulla spesa storica ad una che si affida progressivamente alla valutazione della produzione scientifica misurata secondo standard internazionali e della didattica; sulla necessità di ridurre proporzionalmente, nel tempo, il peso dalla spesa per il personale rispetto a quella per il diritto allo studio, investendo di più per i campus e per le borse o anche per crediti d’onore; sulla opportunità di prevedere, accanto a meccanismi tesi a premiare gli atenei in cui si produce ricerca di migliore livello, ve ne siano, al livello decentrato, che consentano di pagare meglio i docenti più operosi. C’è consenso, infine, intorno all’idea che non sarà l’ennesima revisione delle procedure concorsuali a migliorare la selezione del personale accademico, ma solo l’attivazione di efficaci meccanismi competitivi e di emulazione delle sedi più prestigiose, laddove la virtù e il prestigio dovessero cominciare a tradursi anche in maggiori risorse.
Rimane invece un notevole dissenso suoi dati e sulle scelte riguardanti le risorse da destinare complessivamente all’Università e alla ricerca.
Il governo, contrariamente a quanto si ricava dagli studi dell’Ocse, da credito all’ interpretazione, veicolata anche da campagne giornalistiche non sempre corrette, secondo cui ci siano margini per risparmiare in un settore in cui fino ad ora si è sperperato. Ma è presumibile che lo stesso ministro, se ha acquisito un po’ di esperienza sul campo, sappia che le sue ambizioni riformatrici, se sono sincere, si scontreranno contro questo problema tra appena un anno, quando sarà evidente che è semplicemente impossibile al tempo stesso introdurre meccanismi meritocratici (i quali, per definizione, trasferiscono risorse da certi atenei ad altri) e ridurre le risorse complessivamente allocate al sistema universitario. A quel punto si accorgerà che senza qualche risorsa aggiuntiva, e un largo consenso, le riforme che oggi promette si riveleranno impraticabili.