Pubblichiamo la relazione del vicepresidente del Senato, Vannino Chiti, al convegno “La vita: fragilità e pienezza”.
Il nostro tempo conosce mutamenti vorticosi imposti dalle nuove tecnologie. Di fronte ad essi occorrono nuove consapevolezze, etiche e giuridiche, nei confronti della vita e della morte, nei confronti dei nuovi confini che appaiono fare arretrare il determinismo della natura.
Nelle diverse concezioni del mondo e ispirazioni etiche presenti nella società, il punto d’incontro che può essere con pazienza ricercato, in un dialogo rispettoso e costruttivo tra laici credenti e – per usare una espressione del Cardinale Carlo Maria Martini – laici diversamente credenti, risiede nella convinzione che la sacralità della vita consista nel tenere strettamente unite la sua libertà e la sua responsabilità.
È questo che fonda la Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo.
Amore, liberta e responsabilità sono i segni stessi della creazione.
La libertà ha un limite consapevole e anche interno a sé nella dignità come sintesi dei diritti e dei doveri della persona.
Per me è questa la stella polare che deve guidare le riflessioni, i comportamenti, le stesse scelte legislative sia riguardo alla procreazione, sia riguardo alle cure e al legittimo rifiuto dell’accanimento terapeutico, sia nei confronti del sostegno alla famiglia.
La centralità della persona, con i suoi diritti ed i suoi doveri, è il riferimento fondamentale per incamminarci, con attenzione, prudenza ma senza paure e angosce, lungo terreni inesplorati.
Se dovessi fare ricorso ad una immagine biblica rispetto alla manifestazione e all’aiuto di Dio per muoverci in questi sentieri ed affrontare sfide sconosciute, ricorrerei al Primo libro dei Re là dove Dio appare ad Elia non nel tuono o nel terremoto ma come “mormorio di un vento leggero”. A mio avviso è questo che esprime l’umiltà dello sforzo di capire, anche di ascoltare, e la forza paziente con la quale far fronte alle difficoltà quotidiane dell’agire.
Se guardiamo, in estrema sintesi, alle produzioni legislative in materia di tutela della vita e della maternità, che hanno attraversato gli anni della Repubblica, si può notare come in una prima fase esse siano legate alla tutela del lavoro, influenzate dall’Italia del dopoguerra. Il legislatore era attento più al versante lavorativo. Questa tendenza è rimasta fino alla legge del ’77.
Nella legge del 1950 il legislatore è molto minuzioso e si concentra sulla donna-lavoratrice e sulle gestanti e puerpere-lavoratrici.
Quindi la legge 1026 conferma la ratio della legge del 1950 e va ulteriormente a difendere i diritti della donna gestante e puerpera. In questa fase il bambino non ha una sua specificità giuridica ed è sostanzialmente una sorta di appendice della madre.
Il cambio di impostazione arriva con la legge 903 del 1977, dove si parla di parità di trattamento. La legge comincia a richiamare i diritti sanciti in Costituzione e comincia a parlare di tutela della persone, creando le premesse per la legge n. 194 del 1978 sulla tutela sociale della maternità. La donna viene ora presa in considerazione non solo nella dimensione del lavoro, ma come persona portatrice di diritti a tutto tondo. Il richiamo all’aborto va continuamente verificato alla luce del riferimento all’art. 1 che recita: “l’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite”. La legge 194 vuole certamente una attuazione maggiormente consapevole e non richiede un approccio ideologico e rigido. Non è il terreno su cui scatenare opposte crociate. Su questo ritornerò tra un attimo, a conclusione del mio intervento.
La legge 626 pensa alla persona che è una madre che fa la madre, non che lavora. Il d.lgs. 645 del 1996 tiene conto anche della tutela della salute di una donna che non è in gravidanza, ma potrebbe esserlo. Si ha così una tutela preventiva rispetto al rischio di una gravidanza.
Il d.lgs 645 prevede una serie di misure per i datori di lavoro a tutela della donna ma anche del feto. Si pensa ad un modello complessivo di organizzazione del lavoro, che non parte dal semplice bisogno della donna.
La legge 25 del 1999 ha ulteriormente aumentato i diritti della donna in quanto tale, ad esempio perché vieta il lavoro notturno della donna che ha partorito.
Il d.lgsv. 151 del 2001 introduce l’esigenza del sostegno alla paternità, riconosciuta per la prima volta come essa stessa meritevole di tutela. In un modello sociale in trasformazione si considerano anche i diritti e le responsabilità del padre. Si veda ad esempio il congedo di paternità (capo IV art. 28-31), introdotto per la prima volta nel 2001.
La legge 53 del 2000 costituisce un ulteriore passo in avanti in questa direzione.
Si arriva così al 2008, con la circolare del Ministero del Lavoro che è un’ulteriore specificazione dell’art. 17 del T.U. del 2001. Essa prende in considerazione le donne che lavorano in ambito sanitario, ma comunque parla implicitamente dei diritti del feto e del neonato.
Se si prende in considerazione l’aspetto rilevantissimo della mortalità nel parto o immediatamente successiva ad esso, emergono gli enormi progressi compiuti dall’Italia. La mortalità infantile può essere assunta come un indicatore di civiltà. Le cifre parlano chiaro e testimoniano un netto miglioramento delle condizioni materiali di vita, della cultura, dei servizi sanitari.
Il Paese nel suo insieme dedica più cura a attenzione ai suoi bambini.
Questo dato non è occultabile né sottovalutabile.
All’interno di questo quadro positivo si segnalano tuttavia due emergenze molto serie, alle quali occorre dedicare un impegno collettivo. Mi riferisco agli squilibri territoriali, che continuano a penalizzare il Mezzogiorno anche dal punto di vista della vita di un neonato; al tempo stesso alle famiglie degli immigrati, nelle quali, per minore attenzione e cultura della prevenzione, per rischi di emarginazione sociale e condizioni di maggiore povertà, la morte dei bimbi durante il parto è quasi doppia di quella che si ha nelle famiglie italiane.
Un neonato che dovesse nascere a Reggio Calabria, oggi, ha la probabilità di morire tre volte superiore a quella di un neonato di Pistoia o addirittura più di quattro volte di un neonato di Trieste.
Guardando il dislivello economico-sociale tra nord e sud si vede che le diversità nella mortalità infantile sono collegate ad esso ed alla qualità dell’offerta sanitaria.
Il compito che sta di fronte a noi per quanto si riferisce alla mortalità infantile e soprattutto neo-natale, è allora quello di superare al più presto le differenze fra regioni del centro-nord e quelle del sud, in particolare per quanto riguarda Calabria, Sicilia, Puglia, Basilicata e Campania.
In Calabria soprattutto si rende necessaria nel settore materno-infantile una riorganizzazione della rete ospedaliera, alla quale dovrebbero concorrere Ministero della Salute e Regione.
Gli immigrati legalmente presenti in Italia al 1° gennaio di quest’anno sono 3.462.000, pari al 5,8% della popolazione residente: rispetto al 2007 sono aumentati di 454.000.
La distribuzione territoriale è così articolata: 36,3 nel nord-ovest, 27,3 nel nord-est, 24,8 nel centro, 8,0 al sud e 4,5 nelle isole.
Dall’ottica del tema che stiamo affrontando, quello della tutela della maternità e della vita, la chiave di analisi più rilevante è quella che si riferisce agli stranieri in età pediatrica. Al 1° gennaio 2008 sono circa 787.000, il 22,2% del totale.
È la mortalità infantile che colpisce per le sue dimensioni: mentre nel primo anno di vita è del 3,64 per i soggetti di cittadinanza italiana, residenti nel nostro Paese, balza al 5,80 per soggetti con almeno un genitore straniero.
Il volto dell’Italia sta cambiando rapidamente. È indispensabile ripensare e ridisegnare l’intero sistema di cure per i neonati ad alto rischio, definendo livelli e standard di assistenza, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Occorre impostare azioni mirate per la tutela della gravidanza delle donne immigrate, dal momento che si evidenzia un più elevato tasso di prematurità, un basso peso alla nascita e un grado più alto di mortalità neonatale.
Non vedere questa realtà o non intervenirvi con efficacia, presi magari da scontri ideologici datati e astratti è una grave colpa, anche da un punto di vista morale.
Un terzo aspetto caratterizza l’Italia che cambia: quello del numero dei figli per famiglia, più precisamente il modello a “figlio unico”.
A metà degli anni settanta la percentuale di natalità rispetto agli abitanti rappresentava il 15,8. Quella attuale è il 9,7, con una tendenza che potrebbe collocarla a breve al di sotto del 9.
La nostra sta diventando una società senza fratelli, nella quale i bambini frequentano adulti e anziani. Nel 1982 l’età media delle madri era di 27 anni e mezzo, nel 2006 superiore ai 31 anni.
Vengono qui a porsi questioni complesse che riguardano le condizioni di vita dei giovani, la loro speranza nel futuro, la conquista di una autonomia e responsabilità rispetto alle famiglie di origine e dunque i loro percorsi di studio e professionali. Ma riguardano anche la cultura di riferimento, le difficoltà oggi a non scadere in un individualismo egoistico, ma ad affermare invece il ruolo della persona, della sua singolarità ma insieme solidarietà e relazione con gli altri.
La mia convinzione è che un impegno positivo per l’affermazione della vita e la tutela della maternità richieda oggi la capacità di lavorare insieme – nella società e all’interno delle istituzioni – sui punti che già trovano un’ampia convergenza, non sacrificando questi agli aspetti di differente valutazione, sui quali è giusto continui un dibattito ed un confronto.
Costruire ponti, ovunque possibile, non rappresenta un cedimento ideale o sui valori: serve ad affrontare i problemi concreti, forse con umiltà, certo a servizio delle persone.
Enfatizzare le diversità ha il solo scopo, nella sfera politica, di strumentalizzarle, così da ricavarne rendite di posizione, con la volontà di piegare a calcoli di parte di modesto respiro messaggi di valore universale come quello religioso, senza un interesse vero e profondo per le risposte da dare alle sfide inedite che stanno di fronte a noi.
Riguardo alla legge 194, sui casi di interruzione della gravidanza, è necessario e possibile sviluppare un impegno perché – come viene affermato nella sua impostazione guida – non sia utilizzata o piegata a fini di controllo delle nascite.
L’aborto non è una vittoria, per nessuno, meno che mai per la donna, per la madre. Deve essere confermato con nettezza e messo in campo questo indirizzo, così da orientare l’attività degli strumenti di attuazione della legge, a partire dai consultori.
È indispensabile – come ho già sottolineato – dare priorità concreta alla soluzione di quegli squilibri territoriali, sociali economici presenti anche nella sanità che ancora oggi attribuiscono alle regioni meridionali e ai genitori stranieri, venuti attraverso l’immigrazione, un triste primato nella mortalità di bimbi nel parto o appena nati.
Un dramma e una ingiustizia che si consuma sotto i nostri occhi, nella indifferenza generale.
Deve essere reso efficace il sistema delle adozioni: il governo Prodi ha riformato il regolamento della Commissione adozioni internazionali, un passo importante per riorganizzarle, renderle trasparenti, superare una situazione da troppo tempo in sofferenza. Ma è la legge nel suo insieme che va rivista, per consentire a tanti bambini abbandonati nel mondo di poter trovare una famiglia in Italia, a tanti genitori di avere un figlio.
È una scelta di civiltà ed è stare dalla parte dei bambini, approvare un disegno di legge (il governo Prodi lo aveva presentato) sulla parità tra i figli, facendo giustizia delle storiche discriminazioni tra quelli legittimi e i cosiddetti “naturali”, dando anche a questi ultimi la ricchezza degli affetti, con l’inserimento nella rete delle parentele familiari.
La famiglia è davvero la cellula che forma e regge la società: deve essere aiutata, valorizzata, sia perché possa far fronte a difficili condizioni materiali – anche da noi vi è un esplodere di nuove povertà – sia nel costruire un sostegno culturale e uno status giuridico adeguato.
È necessaria una legge contro la violenza in famiglia, un tema difficile – è vero – ma che non può essere rimosso, come troppo spesso si fa, bensì affrontato puntando sulla prevenzione del disagio, della solitudine e sugli interventi di recupero delle vittime.
Occorre dare continuità a misure per la costruzione di asili nido, per il sostegno alle famiglie numerose, attraverso detrazioni fiscali, aiuti alle spese per l’abitazione, promuovendo incentivi per l’assunzione di personale femminile. È indispensabile costruire un nuovo welfare, europeo e più giusto, superando i meccanismi di compensazione del danno nei quali finisce per pesare la forza delle rispettive organizzazioni, così che oggi ne risulta intaccata la vocazione universalistica e realizzando interventi che assicurino uguaglianza di opportunità a tutti i cittadini, in primo luogo i giovani e le donne, in Italia troppo spesso ai margini. È anche in questo quadro che la famiglia diviene un riferimento primario.
Accanto e prima di queste azioni di governo – che con Prodi avevamo iniziato – importanti per costruire le condizioni che consentano alle coppie giovani di formare una famiglia, di poter mettere al mondo dei figli, senza paure e sfiducia nel futuro, è necessario affermare nella società una cultura nuova.
La persona, la sua dignità deve costituirne il fondamento, la centralità. L’economia, la politica, la scienza devono essere per la persona e non il contrario. Non può, non deve esserci una divisione attorno all’obiettivo di privilegiare la vita, di difenderla e tutelarla. La via maestra per riuscirci non è certo quella di uno Stato etico o totalitario, bensì quella della formazione, della cultura da far divenire “vincente” (Gramsci usava il termine egemone) nella nostra società, così da orientare il senso comune ed i comportamenti.
La nostra epoca, questo XXI secolo appena iniziato, può conoscere uno scontro tra civiltà e una contrapposizione ed incomunicabilità tra religione e scienza.
Sono due rischi da evitare, da rimuovere perché l’umanità possa camminare su un terreno di pace, di cooperazione tra i popoli, di rispetto e valorizzazione dei diritti umani, realizzando uno sviluppo che abbia al centro la persona umana e dunque l’ambiente, il pianeta nel quale viviamo, da salvaguardare per le generazioni che verranno. In questi nostri anni la vita e la morte sono eventi sempre meno naturali e sempre più determinati dalla ingegneria tecnologica grazie alla quale l’uomo può decidere di manipolare l’inizio della vita o posticiparne la fine, ben al di là del naturale ciclo biologico.
Ci è dunque imposto di ripensare le definizioni di vita e di morte, di predisporre nuove regole: dobbiamo farlo con l’apporto delle competenze della scienza, non contro di essa.
Non convince né è praticabile l’idea di assegnare dei limiti precostituiti alla scienza. L’uomo attraverso la scienza ha affrontato e sfidato la natura per migliorare le condizioni di vita, per governarle secondo i bisogni dell’umanità.
La ricerca ha un suo sviluppo continuo. Così è sempre stato. Spetta a noi, ieri, come oggi e domani, interrogarci su ciò che le innovazioni comportano, le loro potenzialità o i loro rischi, decidendo non soltanto come ma anche se utilizzarle.
Vale per me il “principio di precauzione”, che pone un limite alla messa in atto di conquiste tecnologiche che non siano coerenti con il bene comune della persona e dell’umanità e che segnino una scelta irreversibile.
Il diritto non deve appiattirsi acriticamente sui traguardi della scienza e della tecnica. La storia e l’esperienza della nostra civiltà ci hanno ripetutamente mostrato che il “possibile” non coincide sempre con il “giusto” e con il positivo.
Il diritto e le leggi debbono essere orientati da valori fondamentali: per me il primo è quello della centralità della persona umana. È su questa base che dobbiamo riferirci al progresso delle scienze e valutarne gli esiti, le scoperte che si susseguono, le loro possibili applicazioni.
Rispetto alle prospettive legate al tema che ora affrontiamo, la domanda che ci si pone è: quando comincia la vita umana? Una domanda che non si pongono più soltanto gli esperti, gli scienziati o gli addetti ai lavori ma che si affaccia nella mente e nel cuore delle persone comuni, di ognuno di noi. Oggi infatti la ricerca scientifica sull’embrione e il dibattito culturale politico attorno ad esso, le innovazioni che si annunciano nella genetica, il confronto e lo scontro per la utilizzazione di cellule staminali, fanno diventare questa domanda presente e incalzante nella vita quotidiana.
Su di essa sentiamo il bisogno di avere risposte chiare, convincenti, sottratte alla polemica di parte. Tanto più se ci proponiamo che credenti di qualsiasi religione o non credenti in fedi religiose assumano la sacralità della vita e il dovere di tutelarla da ogni tipo di manipolazione, è indispensabile che venga definito e condiviso quando essa abbia inizio.
Ignazio Marino – medico e senatore di grande valore – ci dice che “non è impossibile dare una risposta a questa domanda”.
“Molti scienziati – sono parole sue – sono concordi nel ritenere che nel momento in cui siamo di fronte ad un nuovo DNA, siamo di fronte all’esistenza di una nuova vita”.
Impegnamoci perché venga promosso un confronto collettivo, al quale partecipino scienziati, giuristi, filosofi, religiosi di varie fedi, esponenti politici così da costruire una definizione condivisa.
Così è avvenuto per il concetto di “morte celebrale”, legato prima – come ricorda Marino – ad una determinazione accolta sul piano scientifico e successivamente assunta sul piano giuridico e legislativo, che ha consentito anche lo sviluppo di quel dono di solidarietà umana, che sono i trapianti.
La scienza e l’attività di ricerca non servono all’umanità per sognare l’onnipotenza o per immaginare di imitare Dio; né possono essere costrette ad una subalternità rinunciataria rispetto ai processi della natura.
Quello che è richiesto non è certo di imbavagliare o legare la scienza bensì la decisione ferma che ogni volta che un’innovazione metta a rischio fondamenti etici, come l’interesse collettivo, la dignità della persona o l’equilibrio con il pianeta, ci si deve fermare.
Quello che a conclusione, mi preme sottolineare, sono due aspetti:la necessità di un dialogo e di un incontro tra religione e scienza; la scelta di un rapporto con la scienza che ne rispetti e valorizzi l’autonomia di ricerca, ma senza adesioni acritiche rispetto e ai metodi dell’indagine e alla utilizzazione dei possibili esiti. La persona umana e la sua dignità restano riferimenti centrali e invalicabili.
È un po’ quello che ci dicono, con più semplicità, immediatezza e spirito profetico le parole di Padre Ernesto Balducci, fiduciose verso la scienza, le scoperte scientifiche, il futuro rivendicando tuttavia a questo fine la necessità della mediazione con “la saggezza secolare della sua montagna”.
Pubblicato il 1 Dicembre 2008