L’Italia del tappo generazionale, il paese “bloccato” che guarda con nostalgia al suo passato più che scommettere sul suo futuro ha uno specchio straordinario che riflette in modo cristallino tutte le sue debolezze strutturali: i suoi investimenti nella ricerca. La fuga di cervelli dal Belpaese è solo la punta dell’iceberg.
La nostra università sono (malgrado tutto) una miniera d’oro di talenti – come dimostrano i loro successi appena mettono il naso oltrefrontiera – frustrati da un sistema imballato, incapace di valorizzarli. Prendiamo Pier Francesco Ferrari, 39 anni, una moglie e tre figli. Fosse un talento (presunto) del calcio come Ricardo Quaresma, potrebbe guadagnare 1.600 euro ogni 2 ore di lavoro, lo stipendio che l’Inter paga al suo talentuoso e deludente centrocampista. Capisse di finanza, magari quei 1.600 euro se li metterebbe in tasca ogni mezz’ora, com’è successo nel 2007 al numero uno di Unicredit Alessandro Profumo. Lui invece quella cifra se la suda in un mese (“Lavoro dalle 8.30 di mattina alle 19.30 di sera – precisa – più qualche ora al computer la sera, dopo aver messo a letto i ragazzi”). Avendo un curriculum vitae che recita: neuroscienziato ed etologo al dipartimento di biologia evolutiva dell’Università di Parma, tra i massimi esperti mondiali negli studi sui neuroni specchio, 18 mesi di dottorato alla Tufts University di Boston, un anno a Washington a un progetto finanziato dal National Institute of Health a Washington (“che nostalgia, mi pagavano 100mila dollari l’anno…”), ricerche pubblicate sulle riviste più prestigiose del globo, Science compresa.
Ferrari – nota bene – non si lamenta dei soldi. “In fondo – dice il ricercatore parmigiano – mi sveglio ogni mattina pensando che mi pagano per fare quello che ho sempre sognato”. Il suo cruccio è che le notti al computer, i fine settimana passati a studiare come i neuroni dei cervelli delle scimmie reagiscono ai movimenti altrui difficilmente gli regaleranno qualcosa di più di una soddisfazione personale. “Non è nemmeno una questione di baronie – dice – Anzi. Qui a Parma i nostri laboratori accademici sono punte di eccellenza”. Il problema – spiega – è che “l’Università non è in grado di giudicarmi”. Non contano le pubblicazioni internazionali e i dottorati: “Il sistema come tutto il paese è autoreferenziale, sceglie le sue eccellenze con concorsi truccati, in un meccanismo perverso in cui un ateneo non ha alcun interesse ad assumere una persona capace piuttosto che un incompetente”.
Il paradosso di quest’Italia ingessata è che l’incapacità di valorizzare il suo patrimonio di ricerca ha come conseguenza diretta lo svilimento del settore. Il Belpaese è la Cenerentola continentale per investimenti, spende per costruire il suo futuro solo l’1,1% del Pil contro il 2,5% della media Ocse. E se deve tagliare un po’ di spese, come capita con questi chiari di luna, non si fa troppi scrupoli: “Io sono davvero preoccupato – dice Umberto Veronesi, numero uno dell’Istituto Europeo di Oncologia – In teoria proprio in una situazione economica come questa si dovrebbero stanziare più soldi per l’innovazione. E invece so già che finirà per essere punita la ricerca, la più facile da tagliare”.
Preferiamo, come capita ai paesi vecchi e vuoti di speranza, ipotecare il nostro domani per risparmiare due lire oggi: tra il 1990 e il 2005 gli investimenti complessivi pubblici-privati in ricerca e sviluppo (R&S) sono cresciuti da 8,8 a 15,6 miliardi ma il rialzo, depurato dell’inflazione, è stato un modesto 4%. Non solo. Mentre il nostro paese cammina, il resto del mondo corre. Fatti 100 gli stanziamenti del 1990, noi siamo arrivati con il fiatone 15 anni dopo a quota 104 mentre Francia (121), Germania (138) e soprattutto Spagna (217) hanno dimostrato di credere molto di più nel futuro.
Il materiale umano per competere – come dimostra il caso di Ferrari – non manca. L’Italia malgrado il tasso basso di scolarità – 12,2% di laureati, la metà di Francia e Spagna – e i pochi soldi investiti nell’istruzione, riesce lo stesso a formare una comunità scientifica di qualità. “Dalle nostre università escono ricercatori bravi e preparati – conferma il fisico Luciano Maiani, fresco presidente del Cnr – Il problema però è che noi non riusciamo a tenerli in patria. Intendiamoci, l’esperienza all’estero è utile. Ma il canale del reclutamento dovrebbe essere sempre aperto, selettivo ma costante, senza blocchi delle assunzioni. Se no si uccidono le speranze delle nuove generazioni”.
La cartina di tornasole – un po’ agrodolce – della qualità dei ricercatori italiani e delle opportunità perse da un paese che non riesce a trattenerli sono i risultati del primo bando di stanziamento fondi (300 milioni) del Consiglio Europeo delle ricerche, il più innovativo sistema di finanziamento Ue che in pochi anni distribuirà la bellezza di 7,5 miliardi. L’Italia è stata prima per numero di richieste (il 19,2% del totale) – segno di una comunità scientifica numerosa ma che fatica a trovare soldi in patria – e seconda per numero di vincitori. Peccato che su 58 dei premiati tricolori, ben 18 abbiano deciso di esportare in strutture straniere il loro know-how. Mentre solo quattro “Archimedi” (un inglese, due polacchi e un norvegese) hanno scelto di espatriare nello stivale, contro i 58 che hanno deciso di trasferirsi a Londra.
Manca il salto di qualità. Lo Stato mette pochi soldi per la ricerca e molti di quei pochi li spende male. I privati, anche per le peculiarità del nostro sistema imprenditoriale fatto di imprese medio-piccole, investono molto meno dei loro concorrenti europei. Gli stanziamenti pubblici, secondo i dati della Fondazione Cotec, sono fermi al livello del ’90 (lo 0,52% del Pil contro lo 0,77% della Francia e lo 0,76% della Germania) con un preoccupante decremento negli ultimi quattro anni. Il gap è ancora più evidente sul fronte degli investimenti privati. Le imprese del Belpaese garantiscono poco più della metà dei soldi a disposizione della ricerca in Italia, una montagnetta di denari che – ed è uno dei pochi segnali positivi del settore – tende negli ultimi anni a crescere (+6% tra 2003 e 2005). In valore assoluto, però, rimaniamo la cenerentola d’Europa: i fondi garantiti dalle imprese all’innovazione sono pari allo 0,55% del Pil, contro il 2,54% del Giappone, l’1,83% della Germania e persino lo 0,6% della Spagna. La morale è semplice: ricerca e sviluppo – in teoria uno dei volani in grado di far ripartire il paese e aiutare a ricostruire la sua classe dirigente – non decollano. E la fabbrica dei talenti funziona solo in base a una sorta di volontariato come nel caso di Ferrari, o grazie a una sorta di fai-da-te per raccogliere i capitali necessari a tirare avanti.
“Io dico che bisogna lo stesso essere ottimisti – dice Maiani – Le risorse dello stato sono sempre meno, ma il Cnr, ad esempio, ha imparato negli ultimi cinque anni dopo la Riforma Moratti a conquistarsi i suoi fondi sul mercato. Oggi il ministero garantisce solo il 50% delle nostre entrate (in totale poco più di un miliardo nel 2007, ndr.) e il resto siamo riusciti a procurarcelo altrove”. In parte dalla Ue, in parte dalle Regioni, con una parte importante dovuta alle imprese.
“Unioncamere e Confindustria sono nel nostro cda – conferma il numero uno del Cnr – Sono convinto che creeremo un rapporto virtuoso e spero di riuscire anche a far nascere dal Centro nazionale delle ricerche nuove aziende innovative in grado di muoversi con le loro gambe”. Resta il problema di finanziare la ricerca “fondamentale”, quella svincolata da immediati ritorni economici e da interessi aziendali. “In effetti le risorse per questo lavoro sono pochissime. Mi basterebbero un centinaio di milioni, più o meno quanto ne perdeva in un paio di mesi Alitalia”, conclude Maiani. La compagnia di bandiera pare – scioperi permettendo – che si sia salvata a suon di contributi pubblici (lo stato alla fine pagherà a piè di lista qualche miliardo di euro). Per sbloccare la ricerca di casa nostra, invece, e regalare un po’ di speranza ai tanti Ferrari tricolori non sembra al momento esserci alcuna Cai in vista.
La Repubblica, 12 novembre 2008