Il loro nemico non è il governo, il loro nemico è il mancato investimento di un´intera società nei suoi figli, la sfiducia nella loro capacità non di essere aiutati, ma di aiutare
L´unica pista interpretativa solida e utile è guardare ai ventenni d´oggi come a persone che intuiscono la condanna e una eterna e indesiderata gioventù
È una contestazione diversa dalle precedenti. Distante dai contenuti del Sessantotto. Oggi i ragazzi chiedono cose poco ideologiche e molto concrete, legate al loro incerto futuro
Da qualche anno, come se si pronunciasse una qualunque tra le nozioni statistiche, si ripete che per la prima volta dal Dopoguerra i figli hanno prospettive economiche peggiori dei padri. Il concetto, a ben vedere, è devastante. Lo è socialmente, lo è psicologicamente. E valutandone meglio il significato, l´impatto sulla realtà, magari si sarebbe potuto prevedere con qualche anticipo quanto sta accadendo nelle scuole e nelle università. Perché non sono più l´ordine e il sistema di valori degli adulti, come quarant´anni fa, a essere passibili di contestazione. Non è la mentalità, non i costumi, non le idee politiche. Non i capelli corti e la cravatta, non l´ipocrisia sessuale, non il conformismo religioso, che per altro questi padri (noi) non incarnano più da tempo – semmai ne rappresentano gli innocui cocci in qualche modo rappezzati.
È la struttura economica in sé la nuova rigidità contro la quale cozza e si spegne, per milioni di giovani, il desiderio di futuro. È l´idea che il superamento dei padri (obiettivo fin qui, se non scontato, molto probabile) rischia di essere un´impresa disperata, e che lo stato di dipendenza – anche psicologica – dalla propria famiglia, ancorché alleggerita da un rapporto amicale o finto tale, possa trascinarsi fino ai primi capelli bianchi. Quando sentirsi “figli”, se non è una nuova responsabilità che si assume nei confronti dei genitori che invecchiano, è solamente un malinconico strascico.
Poiché è piuttosto protervo, e soprattutto inutile, provare a incasellare i nuovi studenti in lotta nelle categorie per noi più familiari, e rassicuranti, mi sembra che l´unica pista interpretativa solida e utile sia proprio guardare ai ventenni di oggi come a persone che presagiscono, o intuiscono, la condanna a una eterna e indesiderata gioventù. Precaria a oltranza, come è precaria l´identità dell´adolescente, però quasi eternata da un mercato del lavoro che vede trentenni e quarantenni trattati da apprendisti, sbalestrati tra mezzi mestieri e titoli di studio che valgono appena il peso della carta su cui sono stampati, concorsi umilianti e fortemente sospetti, anticamere che schiudono le porte di altre anticamere. Esclusi da quelle certezze professionali che fungono non solo da sostegno economico, ma anche da fondamento identitario. Perché alla domanda “chi sono io” ciascuno di noi, fin qui, ha risposto anche con il proprio lavoro e la propria posizione sociale, sapendo che non bastava, ma era già qualcosa. E se questo qualcosa ora sfugge a chi vive la propria gioventù come uno smisurato parcheggio, e a migliaia (genitori e figli) scrivono ai giornali per descrivere il penoso limbo nel quale ristagnano le loro ambizioni, forse la chiave per capire i cortei, le occupazioni, gli slogan, non è un colpo di mano burocratico come il decreto Gelmini (casus belli piccolo piccolo).
La chiave è la messa in comune, la coscienza finalmente collettiva (politica molto più della politica…) di una condizione di non-crescita che solo la distrazione degli adulti ha potuto vedere, fin qui, appena come un ingombrante prolungamento dei doveri di genitore. Visto dalla parte dei figli, questo prolungamento può anche essere un´umiliante, insopportabile negazione di quel naturale sviluppo delle proprie facoltà, e della propria libertà, che conduce fuori casa e permette di pareggiare i conti, anche psichici, con chi ti ha cresciuto e mantenuto.
La giovinezza come blocco e non più come movimento: non era mai accaduto. Si rimprovera ai ragazzi in lotta di maneggiare con qualche approssimazione e troppa animosità cifre e tagli governativi, ma è dentro quella materia bruta – soldi, finanziamenti, ossigeno per durare – che giustamente devono e vogliono farsi le ossa: è della loro debolezza sociale, della loro poca voce politica, della loro ansia che quei tagli sono l´ennesimo artefice.
Il loro nemico non è il governo, il loro nemico è il mancato investimento di una intera società nei suoi figli, la sfiducia nella loro capacità non di essere aiutati, ma di aiutare. Cortei e occupazioni sono la risposta (tradizionale, rituale, ma trovatene un´altra) alla scarsa considerazione sociale della quale, esattamente come i loro insegnanti, sono vittime. L´inedita alleanza con gli insegnanti è rivelatrice: parla anche lei di una comune condizione, quella di precari o di precariamente pagati. In fin dei conti molti insegnanti, e perfino molti ricercatori universitari, sono trattati da “ragazzi” anche se alle viste della pensione, e il deprezzamento culturale, e lo sfregio greve di certi commenti politici (“è finita la ricreazione”, “studenti somari”, “insegnanti inutili”) non fa che confermarli nella loro malinconica rabbia. Chi non è considerato, chi non è ascoltato, inevitabilmente finisce per darsi voce.
Che poi sopra questo tessuto vitale, fortemente espressivo, gli adulti vogliano ancora tessere le loro trame politiche, cavalcando la tigre oppure cercando di ingabbiarla, fa parte dello stesso copione che questi ragazzi vogliono provare a riscrivere. La fatica è enorme, l´impresa durissima. Rispettarla non significa adularla, significa coglierne gli elementi di verità (esistenziale e non solo politica) che questo movimento rappresenta. Di certo, oggi, c´è solo una cosa: che nessun Ionesco potrà affacciarsi alla finestra – come dice l´aneddoto forse leggendario – dicendo beffardo ai giovani in corteo, nel maggio francese, “diventerete tutti notai”. Perché è già tanto se li assumono in un call-center con due mesi di contratto. Notai? Magari fosse vero.
La Repubblica, 4 novembre 2008