Le previsioni economiche, come quelle meteorologiche, vanno lette con cautela. Anche quando è nell’aria un punto di svolta, anche quando si è certi che presto o tardi ci sarà un momento di rottura, è difficile indovinare quando esattamente avverrà: se così non fosse non si spiegherebbero i guadagni e le perdite che gli speculatori fanno in questi casi. Ma quando la svolta è avvenuta, gli sviluppi successivi sono più facili da prevedere, perché le forze all’opera e le conseguenze della loro interazione sono meglio note agli economisti. Proprio come sono note ai meteorologi le conseguenze sul tempo in Italia di un anticiclone sull’Atlantico, una volta che si è stabilmente installato lì: difficile è prevedere quando si stabilizzerà. Purtroppo appartengono al genere delle previsioni relativamente affidabili quelle che stanno circolando sulle prospettive della crescita americana ed europea: siamo in recessione, che in alcuni Paesi potrà implicare trimestri di crescita negativa e almeno un paio d’anni di difficoltà serie per tutti. E siccome l’economia italiana cresce nettamente meno della media europea, ci aspettano tempi duri. Più duri che nel resto dell’Europa. Perché?
In parte la risposta va cercata nel deperimento relativo delle nostre strutture economiche e istituzionali: i cattivi governi di un lontano passato ci hanno lasciato in eredità un settore pubblico e un settore privato meno efficienti e competitivi di quelli altrui. In parte le nostre maggiori difficoltà derivano dalle scarse risorse mobilitabili per alleviare i numerosi punti di sofferenza che la crisi produce. Con un debito pubblico superiore al Pil — anch’esso conseguenza dei cattivi governi del passato — dobbiamo dedicare una frazione maggiore del prelievo fiscale al pagamento degli interessi e sono minori le possibilità di sostenere disavanzi in un caso di emergenza, com’è quello che incombe. Di alzare ulteriormente la pressione fiscale neppure si discute: non solo perché è già molto elevata, ma perché in casi di domanda fiacca è controproducente. E’ probabile che l’Unione chiuderà un occhio sul rispetto della regola del disavanzo se la situazione si farà veramente grave; ma ne chiuderà due per Paesi che hanno rapporti Debito/ Pil assai inferiori al nostro. E poi, da ultimo, neppure si tratta delle regole europee, ma del giudizio che dei nostri disavanzi, del nostro debito, della nostra affidabilità complessiva daranno i mercati.
Dunque, risorse scarse e numerosi punti di crisi. Come verranno scelti quelli sui quali intervenire? C’è già un impegno del governo sul sistema bancario e c’è solo da sperare che questo se la cavi con risorse proprie. Si è accennato anche a interventi nel caso di difficoltà delle grandi imprese, le poche che ci sono rimaste, e c’è un precedente pericoloso, quello di Alitalia. Ma il nostro è un Paese di piccole imprese e di distretti: come intervenire nel caso si creassero situazioni di sofferenza?
Non sono le imprese, semplici entità giuridiche, ma le persone, i lavoratori, quelli che soffrono e bisognerà finanziare ampiamente la Cassa integrazione straordinaria, nel caso di crisi aziendali. Non basterà, perché a perdere il posto saranno soprattutto lavoratori che non hanno diritto alla Cassa integrazione e giustamente il governo ha messo in cantiere un piano di ammortizzatori: sarà sufficiente? E’ ben congegnato? Alla base di tutto c’è il problema dei bassi redditi, delle famiglie che faticano ad arrivare alla quarta settimana: detassare gli straordinari o la contrattazione integrativa va bene per incentivare la produttività, ma non è la risposta più efficace in un momento di crisi, quando di straordinari o di contrattazione di secondo livello se ne fanno di meno. E questo ci porta al più grave difetto d’impianto della manovra economica, la mancata detassazione dei redditi più bassi e, più in generale, l’assenza di misure universali a loro sostegno: non era necessario attendere il recente rapporto dell’ Ocse per sapere che il nostro, in Europa, è uno dei Paesi in cui le disuguaglianze sono maggiori e, soprattutto, si stanno aggravando. E non è necessario essere degli economisti per rendersi conto che le diseguaglianze mordono di più quando il reddito complessivo diminuisce.
I punti di sofferenza, come li abbiamo chiamati, sono ben più numerosi. Aggiungere a questi il Mezzogiorno è quasi imbarazzante per la sua evidenza — quando si parla di povertà si parla soprattutto di Mezzogiorno — e preoccupa la mancanza di risorse dei Comuni, i più esposti sul fronte di interventi di assistenza immediata: non credo che, se avesse previsto la crisi, il governo avrebbe eliminato subito l’Ici sulla prima casa. Ma recriminare è inutile. Ora c’è bisogno di un indirizzo politico che, riconoscendo la gravità della situazione, concentri le poche risorse disponibili sui punti di maggiore sofferenza. Che ne impedisca la dispersione in mille rivoli, a seconda di chi grida più forte o ha le connessioni migliori, siano essi i produttori di frigoriferi o di parmigiano reggiano. Che non approfitti dell’emergenza per abolire o stravolgere le regole alle quali è affidata, nel lungo periodo, una risposta alle nostre difficoltà di crescita.
Il Corriere della sera, 27 ottobre 2008