Non c’erano riusciti la Democrazia Cristiana dei tempi d’oro e neanche Bettino Craxi al suo massimo fulgore. Ma allora dall’altra parte c’era Enrico Cuccia a presidiare il fortino. Oggi dall’altra parte c’è Cesare Geronzi, e Silvio Berlusconi non è solo un politico potentissimo ma anche un ricco imprenditore.
E’ accaduto, l’algida Mediobanca ha un colore, che somiglia molto all’azzurro berlusconiano. Non prenderà ordini, questo a quei livelli non succede, ma interpreterà le strategie, accompagnerà le operazioni e, quel che più conta, condividerà i nemici. Ci ha messo 14 anni, ma alla fine, complice anche una crisi finanziaria senza precedenti, il presidente del consiglio, già al centro del sistema politico, si è messo al centro anche della ragnatela del potere economico. E se Mediobanca è la conquista più grossa, non è certo la sola.
Le crisi economiche indeboliscono i governi, perché perdono il consenso della popolazione, quelle finanziarie invece li rafforzano, perché banchieri e grandi imprenditori hanno bisogno dei soldi dello stato, della protezione dello stato, e a decidere se darli, come darli e a chi darli è il governo in carica. E oggi in carica c’è un governo che gode di una maggioranza larga e unificata nel culto del capo.
Le partite dell’estate hanno aperto la strada. Corrado Passera, l’amministratore delegato di Banca Intesa San Paolo, l’operazione Alitalia la voleva fare già quando al governo c’era Romano Prodi, ma l’ha fatta con Berlusconi, e tutti e due devono l’uno all’altro un po’ di riconoscenza. La squadra di Cai è una magnifica passerella di pianeti che, chi da sempre e chi con questa operazione, sono ormai nell’orbita del sole berlusconiano.
Roberto Colaninno, manager e imprenditore di sinistra, alle urne voterà chi vuole ma nei fatti è entrato nella squadra. C’è entrato il gruppo Benetton, al quale il governo Berlusconi ha risolto il problema della concessione autostradale e che, grato, ha ricambiato prendendo posto nella cordata Cai. Nella quale troviamo anche il riservato Aponte, armatore di successo con base in Svizzera e interessato tra l’altro alla privatizzazione della Tirrenia.
La lista è lunga, ma passiamo avanti. Quando la Telecom guidata da Franco Bernabè ha sentito sul collo troppo insistente il fiato di Telefonica è a Palazzo Chigi che ha trovato la sua sponda. E quello che vediamo questi giorni ha i suoi prodromi anche nella battaglia dell’estate sulla governance di Mediobanca, che si è conclusa con Cesare Geronzi che recupera pieni poteri da presidente e diventa l’ago della bilancia, e con Marina Berlusconi, figlia del premier e presidente della cassaforte di famiglia, la Fininvest, che entra nel consiglio di amministrazione, aggiungendosi a Ennio Doris, patron di Mediolanum della quale Berlusconi è grandissimo azionista, a Tarak Ben Ammar, il capofila degli azionisti francesi, storico sodale del premier, a Salvatore Ligresti, amico da sempre.
La guerra dell’estate si conclude bene per i manager, presenti in massa nel consiglio di amministrazione e nel comitato esecutivo, ma nel comitato nomine ci sono Tarak Ben Ammar e Marco Tronchetti Provera, che non è certo un nemico del Cavaliere, oltre al presidente di Unicredit Dieter Rampl.
Poi questa estate che ha portato un carniere così ricco si è conclusa ed è cominciato l’autunno, e con esso la vera rivoluzione. La crisi finanziaria si allarga, l’Europa viene coinvolta in pieno, le banche finiscono sotto tiro. E più sotto tiro di tutte Unicredit, la più grande e più internazionale, quella più manageriale e più impermeabile ai meccanismi del potere nazionale. Alessandro Profumo che ha costruito il colosso e l’ha guidato con la ferrea determinazione a considerare il mercato il suo referente finale è stato tradito da quello stesso mercato al quale affidava la sua forza contrattuale nel confronti dei poteri nazionali, dei salotti e dei palazzi. Una indipendenza poco gradita e poco capita che oggi, con il ritorno all’antico, rischia di pagare.
Poiché il potere non lascia spazi vuoti, la debolezza di questo momento di Profumo aumenta la forza in questa fase di Cesare Geronzi, il suo antagonista nella guerra dell’estate sulla governance di Mediobanca. Ritorna l’Italia rispetto all’Europa, vincono le relazioni, si riabilitano le trame, che siano romane o milanesi ormai fa meno differenza. Il mercato che va giù travolge tutti, quelli che ne avevano approfittato e quelli che lo avevano rispettato. Vengono ridimensionati i manager e gli imprenditori che cercavano lì la conferma delle loro scelte, conquistano spazio quelli che ‘si sanno muovere’. Il mercato va giù e torna in auge lo stato, improvvisamente esaltato e non più vituperato. Non quello delle regole, ovviamente, che crisi o non crisi piace sempre a pochi, ma quello dei soldi dei contribuenti da distribuire che invece piace sempre e, quando il contesto lo consente, non ci vergogna di richiamare in causa. E lo stato è la maggioranza, il governo, il primo ministro.
L’opposizione come referente scompare, conquista un piccolo ruolo finale nella vicenda Alitalia, ma non ha la forza per incidere. Uscito Prodi dalla scena politica nazionale molti sono rimasti orfani, e da quella parte dello schieramento non c’è nessuno che abbia una presa comparabile nel mondo delle banche e delle imprese.
Nel nuovo clima si sentono elogi alla Banca d’Italia di Antonio Fazio, dimenticando forse, in tempi di banche in difficoltà, la vicenda così poco esemplare della Popolare di Lodi guidata da Giampiero Fiorani che di Fazio era il pupillo. Sono battute che sono anche segnali: se andava bene Fazio vuol dire che per qualcuno va meno bene il suo successore in via Nazionale Mario Draghi? Vedremo.
Intanto la difficoltà delle banche sui mercati chiama in causa il governo, che fa la cosa giusta, protegge i depositi, offre capitale pubblico a garantire la ricapitalizzazione degli istituti che dovessero averne bisogno. «Non fallirà nessuna banca» assicura Berlusconi, «nessun depositante perderà un euro».
Era quello che si doveva fare ed è stato fatto, con delle cautele apprezzabili: le azioni che lo Stato dovesse ottenere ricapitalizzando le banche sarebbero privilegiate, quindi senza diritto di voto; le operazioni passerebbero prima per la Banca d’Italia. Ma anche con dei margini che potrebbero diventare preoccupanti: la banca che chiede soldi allo Stato deve cambiare il management (e indovinate chi indicherà il successore?); il governo potrà intervenire sulla governance e sul piano industriale. Garanzie in teoria che i denari dei contribuenti non vengano affidati a chi ha dilapidato quelli degli azionisti, in pratica una fessura attraverso la quale potrebbe passare il rientro della politica nelle banche.
Ed è qui che la nuova galassia berlusconiana si rinsalda, agganciando anche il sistema bancario, che fino a ieri gli era rimasto estraneo. Il primo referente berlusconiano nel sistema viene ufficializzato con la sua partecipazione ai vertici che precedono il varo della manovra: è la Mediobanca di Cesare Geronzi, ritornata rapidamente a fare da pivot della ragnatela dopo esserne stata per qualche anno scalzata. Attraverso Mediobanca si irradia una linea diretta di influenza che va verso Rcs, Generali e Telecom, e una indiretta che va verso tutti coloro che potrebbero aver bisogno di aiuto, privato o più probabilmente pubblico. Sarà nei fatti il primo filtro.
Al piano di sopra, prima di arrivare a Berlusconi, il centro del sistema, ci sono ormai soltanto in due. Gianni Letta, braccio destro del Cavaliere, grande artefice dell’operazione Alitalia, storico amico di Cesare Geronzi, e Giulio Tremonti, potentissimo ministro dell’economia, teorico dell’antimercatismo. Il terzo, che è nella partita ma con un ruolo assai diverso è Mario Draghi, governatore di Banca d’Italia. Tre personaggi chiave, tre culture diverse e in parte confliggenti. Fra Tremonti e Letta i rapporti non sono facili, vengono da mondi lontani, lombardo, di origini socialiste, intellettuale e spigoloso il primo; democristiano, romano (di origini abruzzesi), salottiero e grande mediatore il secondo. Sono diverse le reti, i riferimenti. Ciascuno dei due diventerà referente di pezzi della galassia, ci saranno scintille ma c’è Berlusconi a garantire la sintesi finale.
Dall’altra parte c’è Mario Draghi. Non è un mercatista ma crede nel mercato regolato, è uomo di mondo ma attento a tutelare l’autonomia del suo ruolo e del suo istituto e anche, lo vedremo alla prova, del sistema bancario che ha la responsabilità di vigilare. Non saranno rapporti facili, le tensioni già si percepiscono e se la crisi dovesse peggiorare e da potenzialità l’intervento pubblico dovesse diventare una realtà, si accentueranno.
C’è già la gara a individuare gli amici e i nemici di ciascuno. Giochi di società nel salotto mentre il terremoto scuote le mura.
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