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“La politica dell’odio”, di Luigi Manconi

Tutti lì, nel centrodestra, ad affannarsi e ad arrabattarsi per spiegare che «no, non si tratta di razzismo», che «l’Italia non è un Paese razzista» e che, infine, non si deve definire come intolleranza etnica quello che è nient’altro che un episodio sgradevole (o, nel caso peggiore, criminale). Sullo sfondo, sottile, sottilissima, eppure tanto insidiosa da rischiare di penetrare nel senso comune, una interpretazione che, comunque la si voglia imbellettare, suona così: alla fin fine, se la sono cercata. Attenzione: se considerate puntualmente quest’ultima affermazione, al di là della sua formulazione triviale, vi accorgerete che essa sorregge le impalcature teoriche, proposte come complesse e responsabili, di gran parte delle politiche anti-immigrazione.

Queste ultime, ma anche le manifestazioni di intolleranza e di aggressività nelle relazioni tra italiani e stranieri, vengono fatte risalire pressoché esclusivamente a una causa: il numero eccessivo di immigrati presenti nel territorio nazionale. La riduzione di tale numero, comunque ottenuta, dovrebbe determinare l’effetto di contenere la xenofobia e le sue manifestazioni violente. Insomma, basta espellerne e respingerne tanti e ci sarà meno casino (e più decoro urbano, che non guasta mai). In una mossa sola, oplà, la vittima diventa responsabile della propria vittimizzazione: chi è causa del suo mal pianga se stesso. (Così come se tu, invece di voler fare a tutti i costi il proletario in un cantiere edile, avessi ascoltato i consigli di papà e operassi in Borsa: oggi non correresti il rischio di precipitare da un ponteggio oscillante nel vuoto).

Ripeto: non si tratta solo della reazione superficiale e, tutto sommato, difensiva e istintiva di un soggetto debole cui è stata “imposta” la fatica di una convivenza non prevista e non voluta con altri soggetti deboli, che vengono vissuti come totalmente estranei e potenzialmente, nemici. Quella stessa lettura alimenta molta pubblicistica e gran parte del discorso pubblico del ceto di governo. Unitamente a questo, c’è quell’accalorato agitarsi per negare che «l’Italia sia un Paese razzista». Ma chi mai l’ha detto? O meglio: quale scemo potrebbe mai dirlo? Affermare che un paese o una collettività nazionale siano “razzisti”, equivale propriamente ad adottare il medesimo paradigma razzista, fondato appunto sull’attribuzione a una comunità dei connotati o dei misfatti di un singolo componente (o di più componenti) di quella medesima comunità. Dunque, il problema è palesemente un altro. Ed è quello di riconoscere che, in una società complicata ed inquieta come la nostra, non è “il razzismo” (categoria che rischia l’astrattezza) che va enfatizzato, ma è la diffusione crescente di “atti di razzismo” che va considerata come una minaccia e risolutamente contrastata.

Il fatto che il centrodestra neghi questa evidenza o voglia attribuirle un segno neutrale («sono semplici atti di teppismo») è due volte inquietante. In primo luogo, perché rivela una vera e propria procedura di rimozione (in senso squisitamente psicanalitico), che conferma l’incapacità di riflettere sul problema e, in particolare, su come quel problema riguardi il “cuore profondo” del centrodestra stesso. In altre parole, spaventato dall’idea di scoprire in sé pulsioni inequivocabilmente razziste, il centrodestra nega quelle pulsioni censurandole, indirizzandole altrove, mutando il loro nome. Insomma, come ha ricordato opportunamente Gad Lerner nel corso della trasmissione televisiva Anno Zero, se in campagna elettorale esponenti politici urlano: cacceremo i clandestini a calci nel culo, è irresponsabile pensare che non si producano effetti pesanti sugli orientamenti individuali e collettivi. La rimozione del razzismo come problema esalta l’aggressività latente, rende patologici i sentimenti di frustrazione e la volontà di rivalsa, indirizza contro il capro espiatorio più a portata di mano la condizione diffusa di stress e di ansia. Quelli del centrodestra più fieri di aver frequentato il liceo classico ricordano, con modi petulanti, che xenofobia non significa odio razziale, bensì paura dello straniero. Ma è proprio qui il punto. Quella paura (motivata, immotivata o solo parzialmente motivata) si manifesta come umore e come sentimento: dopo di che la si può blandire o razionalizzare, galvanizzare o mediare, indirizzare politicamente o contenere intelligentemente.

In Italia, una parte significativa del ceto di governo (della Lega, di An, di Forza Italia) ha deciso di farsi “imprenditore politico” di quella paura. Ovvero di trattarla politicamente, di trasferirla nella sfera pubblico-istituzionale, di scagliarla contro gli avversari. E qui arriviamo alla seconda ragione di inquietudine.
Considerate quei disgraziati che hanno aggredito il cittadino cinese a Tor Bella Monaca. Si tratta di minorenni alcuni dei quali già responsabili di episodi analoghi. Li si deve giudicare e punire secondo quanto previsto dalla legge. Ma il farlo (si spera con tempestività) non deve impedirci di provare a “capirli”. Capirli non significa essere indulgenti: significa, piuttosto, indagare le cause che hanno indotto degli adolescenti a trasformarsi in criminali. Tra tali cause c’è quel fattore incentivante di cui già si è detto: se un leader politico o una leader politica urlano nei comizi cacceremo i clandestini a calci nel culo, perché mai, in presenza di determinate condizioni sociali e culturali, un adolescente frustrato e smarrito non dovrebbe passare a vie di fatto? O forse ci si aspetta che, prima di sferrare quei calci “nel culo” chieda alla sua vittima se è regolare o irregolare, se è titolare o meno di permesso di soggiorno, se è un rifugiato politico o un “clandestino”?

Qui si pone un problema di linguaggio: e di linguaggio del discorso pubblico. Il termine “clandestino” è diventato merce corrente anche nel dibattito della sinistra, ed è un termine due volte sbagliato. In primo luogo, perché è improprio sotto il profilo giuridico: chi viola le norme su ingresso e permanenza nel territorio italiano commette un illecito amministrativo – una infrazione – e diventa irregolare; poi, perché quel termine è fortemente e cupamente denotativo, richiamando una dimensione di illegalità e di tendenziale criminalità, che risponde al vero solo per una quota minoritaria di stranieri irregolari. Più in generale, quello del linguaggio è un vero campo di battaglia tra discriminazione e integrazione, tra rifiuto e accoglienza. Si pensi a quando Antonio Di Pietro, nel dirsi favorevole alla classificazione dell’immigrazione irregolare come fattispecie penale, spiegò che in caso contrario «l’Italia sarebbe diventata il vespasiano d’Europa». Non siamo in presenza solo di una irresponsabile volgarità, che la dice lunga sulla moralità del difensore della morale: si tratta di una formula propriamente razzistica nel suo assimilare gli immigrati agli escrementi. Ma assai più grave, evidentemente, è l’uso costante e massiccio di quel linguaggio da parte del centrodestra: e patetico il suo tentativo di scindere completamente quel vocabolario razzistico dagli effetti sociali che contribuisce a determinare. Tanto più che – ma qui non posso soffermarmi – alle parole si accompagnano i fatti: decreti legge e delibere che configurano qualcosa di molto simile alla “produzione di razzismo per via istituzionale” (basti pensare a quell’aggravante costituita dalla condizione di irregolarità, che discrimina tra “i cittadini di fronte alla legge” e penalizza non una azione, ma una condizione). Infine, va ricordato che nel corso degli ultimi dodici mesi è avvenuto qualcosa di terribile e tragico: oggi è possibile, in spazi pubblici e in sedi di partito, urlare l’equazione romeni uguale stupratori. È accaduto quasi senza che ce ne accorgessimo, ma la diffusione di quell’infame equiparazione corrisponde a una crisi dei fondamenti culturali di una società democratica e di uno stato di diritto. Certo, i minorenni di Tor Bella Monaca vanno puniti, ma il conto non dovrà esser chiesto loro, se non per quanto di stretta pertinenza e responsabilità. I “mandanti” sono altri e stanno altrove.

L’Unità, 4 ottobre 2008

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