In democrazia è necessario decidere, ma non tutto il decisionismo è democratico e ha conseguenze positive. Così è stato per la manovra estiva (in realtà non c’è niente di più autunnale, se proprio dobbiamo cercare un riferimento stagionale che renda conto di quanto è depressiva la manovra triennale di Tremonti). Con decreto, senza che si potesse discutere il contenuto dei provvedimenti, l’Esecutivo Berlusconi in quella sede ha deciso per scuola e università un taglio complessivo che supera i nove miliardi di euro. Dopo la presentazione alle parti sociali abbiamo saputo come e dove affonderà il bisturi della Gelmini (ma sarebbe meglio parlare dell’accetta) per attuare la manovra estiva. Un bisturi che taglia cattedre e posti di lavoro (87.000 docenti e 43.000 unità di personale ATA) e toglie ore di insegnamento e di tempo trascorso a scuola. Mentre gli indicatori OCSE (molto citati, poco letti) invitano a “mantenere o incrementare gli attuali livelli di spesa per l’istruzione e migliorarne l’efficacia”, in Italia si riducono gli investimenti e non si applica alcuna misura per rendere più efficiente la spesa.
In questo scenario, si è inserito il decreto Gelmini (l’ennesimo decreto che esautora le prerogative del Parlamento) con la velleità di prescrivere la ricetta per (ri)dare senso ed efficacia educativa alla scuola italiana. Ma davvero si può improvvisare una “riforma” del nostro sistema di istruzione per decreto, in autoritaria solitudine?
Claudia Mancina, sulle colonne del giornale del “Riformista”, ha ribadito che la funzione della scuola è quella di formare le nuove generazioni e non quella di combattere la disoccupazione. Concordo, ma il punto è che proprio sul primo aspetto il decreto Gelmini fa acqua da tutte le parti. Non c’è alcunché di riformista in una misura che, mediante decretazione d’urgenza e sotto la cortina fumogena di un’operazione nostalgia del bel tempo andato (voto, voto in condotta, grembiulini), di fatto colpisce l’unico segmento della scuola italiana, la primaria, che ha dimostrato di funzionare bene secondo i parametri nazionali e internazionali.
Il Pd ritiene che l’opposizione responsabile sia quella nel merito e non per questioni ideologiche, pertanto, sul decreto Gelmini, è necessario sgombrare il tavolo da fraintendimenti. Alla scuola deve essere restituita credibilità e centralità e per fare questo è necessario anche renderla più rigorosa e autorevole. Al contorno preparato dal Ministro Gelmini per distrarre i commensali (voto di condotta, voti in decimali o libri di testo non modificabili) non mancheranno le nostre proposte correttive, tanto più che per certi versi si prosegue lungo la linea rigorista inaugurata dal breve ministero Fioroni. Il problema vero sta nella pietanza servita alla mensa parlamentare e al Paese. E a noi, per proseguire nella metafora, appare assolutamente indigesta la controriforma della scuola primaria. Non saprei come altrimenti definire la reintroduzione del maestro unico e, soprattutto, il ritorno a sole 24 ore settimanali di insegnamento, con ingresso in aula alle 8,30 e uscita alle 12,30. Un modello certamente impoverito rispetto all’attuale (introdotto dalla Legge “Mattarella del 1990) che prevede, su un tempo scuola di 27/30 ore, un team di 3 docenti, su 2 classi, con competenze meno generiche, capace di tener conto delle esigenze dei bambini e in grado di insegnare contenuti più specifici nei vari ambiti del sapere. Un conforto ci viene, ancora una volta, dai dati OCSE-PISA: le indagini IEA PIRLS, ad esempio, certificano che le competenze degli alunni italiani di 9 anni in una abilità culturale strategica qual è la lettura sono passate da 529 punti nel 1991 a 551 nel 2006. In 15 anni, grazie anche al nuovo modello didattico, i bambini di 9 anni hanno ottenuto un progresso in competenze pari ad un anno scolastico. Ciò significa che un bambino che oggi ha 9 anni possiede le competenze di un bambino che aveva 10 anni nel 1991. Con soddisfazione dovremmo poi apprendere che tra le ultime due rilevazioni IEA PIRLS (2001 e 2006), il miglioramento del rendimento in lettura ha riguardato gli alunni di quasi tutte le regioni italiane, con maggiore evidenza per il Sud e le Isole. E altrettanto compiacimento dovremmo provare nel saper che a Palermo, tra l’anno scolastico 1988/89 e oggi, la percentuale della dispersione scolastica nella primaria è passato dal drammatico 7,6 allo 0,94, con ovvie ricadute positive sulla frequenza delle medie. Un successo, per tutto il Paese.
Questo significa che il modulo con 3 docenti, affiancato al tempo pieno, sia un modello perfetto? Forse no, probabilmente potrebbe essere ulteriormente migliorato, con riferimento all’organizzazione scolastica e all’utilizzo delle risorse. Ma per dare puntuale risposta a questa domanda si dovrebbe attivare un monitoraggio serio della legge Mattarella a più di 15 anni dalla sua introduzione e, soprattutto, alla luce dell’autonomia attribuita alle scuole. Certo, occorre tempo e si sa, a questo Governo (e a una parte non residuale del Paese) piace decidere e agire in fretta: poco importa in che modo e con quale finalità, l’importante è “fare”. In assenza di un puntuale monitoraggio, che consentirebbe di produrre il secondo rapporto sull’attuazione della riforma Mattarella (il primo fu approvato dal Parlamento nel 1996), ma alla luce delle indagini nazionali e internazionali, il team di 3 maestri appare comunque un buon modello educativo per bambini che vivono in una società complessa e che frequentano una scuola nella quale sono aumentate le differenze culturali e sociali; appare altresì in grado di rispondere alle esigenze delle famiglie, nelle quali le donne sono sempre più protagoniste del processo economico e svolgono contemporaneamente il ruolo di madri e lavoratrici.
Ne è convinta la stessa Gelmini che a fine luglio, in un’intervista radiofonica, annunciava: «non abbiamo assunto nessuna decisione di tornare al maestro unico, le elementari sono un ciclo scolastico che funziona, lo dicono anche i dati OCSE-PISA, e quindi mi auguro che non sarà necessario tornare al maestro unico». Poche settimane e il ministro, con doppio avvitamento, sposa senza dubbi la tesi tremontiana di “un voto, un maestro, un libro (vien da chiedersi a quando un unico pensiero, che ci toglierebbe il fastidio di noiose libere elezioni). Oggi, appare a tutti chiaro il significato di quell’augurio tradito: se avremo bisogno di far cassa lo faremo anche a discapito della scuola primaria, cioè del futuro dei nostri ragazzi e del Paese. Ma al Governo manca il pudore di dire la verità e si ammanta una mera operazione di tagli economici con un debole progetto educativo, affermando che un solo maestro stabilisce una migliore relazione individuale con l’alunno (in una classe di trenta?) e può finalmente rappresentare (data la disattenzione delle famiglie e della società intera) un punto fermo nello sviluppo cognitivo e nel progresso educativo dei bambini. Va da sé che oltre alla missione delegata di “educare” per formare buoni cittadini, il maestro, in sole 24 ore, deve anche insegnare, limitandosi però ai saperi “durevoli” – leggere, scrivere, far di conto – oltre all’inglese e alla religione cattolica. Perché, come ha affermato Valentina Aprea – relatrice del provvedimento e Presidente della VII Commissione – a tutti gli altri apprendimenti provvederanno le agenzie che operano nella società che, meglio della scuola pubblica, sapranno insegnare a disegnare e dipingere, a suonare e cantare, a correre, a stare insieme… Pagando però, aggiungo io.
In queste settimane la Gelmini ha sostenuto che il team di docenti é stato “inventato” per rispondere a esigenze di politica occupazionale. Un argomento che nell’opinione pubblica ha presa facilmente, dopo che per settimane è rimbalzato il ritornello “impiegato pubblico uguale a fannullone”. Il Ministro dimentica però il lungo processo di elaborazione della legge “Mattarella” e, soprattutto, la verifica degli esiti conseguiti dopo i primi cinque anni di sperimentazione, che portò ad aggiustamenti e ripensamenti che contribuirono a fare della scuola primaria italiana una ottima scuola, come ho tentato di argomentare. Mi chiedo: è riformista “barare” sulle origini e sull’applicazione di una legge – i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti – e modificarla senza una discussione e senza un approfondimento? Io credo proprio di no. E per questo motivo chiedo lo stralcio dal decreto dell’art 4, quello sul maestro unico e sulle 24 ore di tempo scuola, perché si possa parlare del miglior modello didattico ed educativo da offrire ai nostri bambini, con il conforto di dati e senza demagogia e diktat tremontiani.
Manuela Ghizzoni
1 Commento