C’è stata una sorta di imbarazzo a denunciare questa misura perché essa può godere di una qualche popolarità. Sappiamo quanto sia difficile parlare dei diritti delle persone migranti e di quanto sia facile contrapporre i diritti dei migranti a quelli degli italiani più deboli. Quando si tratta di assegno sociale, di accesso all’abitazione popolare o alle prestazioni sanitarie. Ma è una responsabilità che una forza come il Pd deve assumersi. Altrimenti l’Italia verrà travolta dalla retorica anti-immigrati diventando un Paese più rozzo, più fragile, più insicuro, più lontano dall’Europa. Elevare da cinque a dieci anni la permanenza continuativa per accedere all’assegno sociale è in contrasto con le direttive europee. Attualmente l’accesso all’assegno sociale per gli immigrati è regolamentato dal decreto legislativo numero 3 dell’8 gennaio 2007, di attuazione della direttiva comunitaria 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo. Questa norma istituisce il permesso di soggiorno CE (Comunità europea) per lungo periodo. L’articolo 11 di tale decreto afferma la parità di trattamento tra gli stranieri lungo soggiornanti e i cittadini nazionali per quanto riguarda, tra l’altro (lettera D) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale. Faccio notare poi che i cittadini stranieri per accedere all’assegno sociale devono essere in possesso del permesso di soggiorno di lunga residenza per il quale devono comunque aver maturato un reddito senza il quale non avrebbero ottenuto il permesso per lungo soggiornanti. Questo è un requisito non richiesto agli italiani e non mi sembra che siano state sollevate obiezioni su una possibile discriminazione.
Anche l’Inps individua la residenza effettiva in Italia, quindi la territorialità, come elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale, cioè all’ottenimento dell’assegno sociale. Pertanto, se ne afferma il diritto per chi risiede sul territorio (nei limiti stabiliti dal nostro ordinamento) sostiene anche la necessità della sospensione per coloro, stranieri, che risiedono all’estero per più di un mese (circolare Inps n. 12889 del 4 giugno 2008). Un invito ad un’interpretazione più favorevole all’integrazione degli immigrati deriva anche dalla recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 306 del 29-30 luglio 2008) che ha dichiarato l’illegittimità di alcuni articoli del Testo Unico sull’immigrazione e della Finanziaria 2001, nella parte in cui escludono che l’indennità di accompagnamento possa essere concessa agli stranieri non comunitari che non hanno il requisito del reddito per l’accesso al permesso di soggiorno di lunga durata.
Dice la Corte Costituzionale che «sia manifestamente irragionevole subordinare l’attribuzione di una prestazione assistenziale quale l’indennità di accompagnamento, i cui presupposti sono la totale disabilità al lavoro, nonché l’incapacità alla deambulazione autonoma o al compimento da soli degli atti quotidiani della vita, al possesso di un titolo di legittimazione alla permanenza del soggiorno in Italia che richiede per il suo rilascio, tra l’altro, la titolarità di un reddito». Anche in questo caso è il criterio della territorialità che ha prevalenza sugli altri.
L’elevamento a dieci anni di permanenza continuativa è inoltre in contrasto con la direttiva comunitaria recepita dal decreto legislativo 6 febbraio 2006 relativo alla libera circolazione dei cittadini comunitari. Secondo tale direttiva il cittadino comunitario può acquisire la residenza dopo tre mesi a fronte di precisi requisiti come il reddito e il lavoro. La libera circolazione dei comunitari deve accompagnarsi con il mantenimento dei fondamentali diritti sociali i quali devono essere regolati attraverso accordi tra gli Stati. Per non parlare degli italiani emigrati all’estero che tornano in Italia senza aver maturato una pensione. Sono sicuramente poche persone ma sono le più deboli e sfortunate. L’elevamento del periodo necessario per l’accesso all’assegno sociale potrebbe avere come conseguenza l’ampliamento delle sacche di povertà nel paese, l’ampliamento dell’emarginazione e dell’esclusione sociale di fasce seppure ridotte di popolazione che non saremmo mai in grado (e forse non potremmo) rimandare al loro paese, con conseguenze negative sulla sicurezza, sul benessere della comunità e anche sul bilancio dello Stato.
È importante però anche alzare lo sguardo su ciò che gli immigrati fanno in Italia, sul contributo che danno all’economia e al benessere sociale nel nostro Paese, riconducendo alla sua dimensione reale anche l’entità dei costi dell’estensione del sistema di welfare agli stranieri regolarmente residenti sul territorio italiano. È necessario tener conto che gli stranieri presenti sul territorio hanno una struttura per età fortemente sbilanciata sulle età centrali, da lavoro (gli ultrasessantacinquenni sono 56.130 su un totale di 2.938.922, pari all’1,9%, dati 2007 contro il 18,86 della popolazione italiana); molti degli stranieri presenti lavorano regolarmente e, quindi, in vecchiaia avranno diritto alle pensioni alle quali hanno contribuito. Molti stranieri svolgono lavoro nero e non per scelta, forse questi, in vecchiaia potrebbero accedere all’assegno sociale, pur avendo comunque lavorato forse per più degli anni necessari per avere il permesso di soggiorno di lunga durata. Solo il 2% dell’insieme delle pensioni di vecchiaia, invalidità e reversibilità riguardano gli immigrati e tra essi in modo particolare riguardano le donne. La quota di abitazioni di edilizia popolare destinata ai cittadini extracomunitari è del 4% a fronte dell’11% per famiglie a basso reddito e del 24% ad anziani. L’indagine sulle forze di lavoro dell’Istat, al primo trimestre 2008, rileva in Italia 1milione e 678mila forze di lavoro straniere (popolazione in età lavorativa) e un milione e 519mila occupati ai quali dobbiamo aggiungere tutti coloro che svolgono lavoro irregolare. Un importante istituto di ricerca, l’Ismu, dice che sono 400mila le colf e badanti irregolari in Italia, cui si aggiungono 250mila uomini che lavorano come operai, addetti al settore della pesca e dell’agricoltura, alle vendite, alla ristorazione e ad altro. Molti di loro sono in Italia da più di tre anni, una su cinque da più di sei anni, saltando diverse possibilità di regolarizzazione. Interi settori sono ormai in mano agli immigrati e non solo nei servizi alla persona: agricoltura, allevamento del bestiame, alcuni settori industriali. Insomma, i lavori che gli italiani non vogliono più fare.
Il Pd deve alzare lo sguardo. Non solo contrastare e criticare i provvedimenti del governo ma deve elaborare una politica organica sull’immigrazione. Deve finalmente stralciare il velo su come vivono gli immigrati nel nostro Paese e su come possono incontrarsi immigrati ed italiani. Vecchi e nuovi cittadini italiani. Per aprire finalmente un dibattito pubblico su quale è la convinvenza possibile e auspicabile. Riconoscendo finalmente anche i vantaggi dell’immigrazione. Per fare sì che l’Italia torni ad essere un Paese competitivo, giovane e moderno. Potremmo cominciare dalla importante manifestazione del 25 ottobre. Sarà importante far vivere questi temi nella piattaforma della manifestazione e coinvolgere per quell’appuntamento tanti “nuovi cittadini” le persone straniere che vivono con noi e ci aiutano a vivere meglio.
L’Unità 4.8.2008