No, della manovra di finanza pubblica appena arrivata in aula alla Camera e su cui è pressocché certa l’immediata apposizione del voto di fiducia, non basta dire che è “mediocre” e “rassegnata”. È ora possibile guardare a ciò a cui siamo di fronte nel suo profilo complessivo e coglierne il “segno ispiratore”, il quale contiene molta asprezza e determinazione nel senso di un decisionismo autoritario con cascami compassionevoli, assai lontano da quell’”attegiamento pragmatico” propizievole per “significativi apporti delle opposizioni” che taluno (si veda M. Salvati, L’occasione del riformismo in Corriere della sera del 23 giugno) aveva voluto vedervi.
Di fronte al monstrum – istituzionale e politico – che si profila appaiono stupefacenti le alte grida di elogi – per l’innovatività, la tempestività, la capacità d’anticipazione – che si sono levate, all’atto del varo della manovra, così stridenti con gli atti effettivi e i testi scritti da far sorgere il dubbio che fossero in un certo senso “a prescindere”, al di fuori cioè di una consapevolezza reale e di una lettura effettiva. Del resto, a rendere oggettivamente difficile un vaglio accurato erano le stesse condizioni materiali della manovra, approvata sì in nove minuti dal Consiglio dei Ministri ma solo per titoli e copertine, mentre per molti giorni, fino alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e alla consegna alle Camere, si protraeva un vortice di versioni diverse da cui entravano e uscivano, e poi ancora entravano, le cose più disparate.
Considerata nel suo insieme, la manovra mostra ben poca innovatività rispetto allo stile del centro-destra italiano, sia nel metodo di sostanziale sfregio delle regole in vigore, sia nel merito delle misure adottate, tra cui spicca la social card per i pensionati e i bisognosi. La novità è solo nel più incalzante piglio decisionista odierno che riguarda sia l’inosservanza delle regole sia il merito delle norme ed esprime un significativo punto di contatto tra il modo con cui il duo Berlusconi-Tremonti tratta sia la materia macroeconomica e finanziaria sia quella giudiziaria.
Dal lato del metodo si è di fronte a una vera e propria lacerazione istituzionale, a partire dall’inversione della tempistica: la manovra, presentata per decreto prima che potesse essere discusso il DPEF e approvata la relativa risoluzione programmatica delle Camere con mandato normativamente vincolante per il governo, ha anticipato e vincolato il DPEF stesso. Per finire con le molte misure ordinamentali presenti (tra di cui quelle che annullano vari aspetti innovativi e positivi del “protocollo sul welfare” siglato dal governo Prodi.) e con i meccanismi della cosiddetta semplificazione (è previsto un “taglia leggi” che investe in modo abborracciato e non meditato 3574 provvedimenti legislativi) che appropriano al Governo una indifferenziata competenza abrogativa in realtà tipica del Parlamento.
L’esproprio del Parlamento è spinto a punte senza precedenti, nello stesso momento in cui regolamenti parlamentari, normativa della sessione di bilancio, articolo 81 della Costituzione, per più aspetti e in molti modi, vengono palesemente violati. Va altresì rilevato che l’avocazione di molte competenze al governo, e addirittura al ministro dell’Economia – una vera e propria ricentralizzazione – è del tutto contraddittoria con i propositi di federalismo a più riprese annunziati, i quali, del resto, se a settembre (quando verrà presentato un apposito, ulteriore collegato alla manovra) venissero attuati secondo quanto è prefigurato nel “modello lombardo”, minaccerebbero l’unità e la coesione del paese.
Nel merito la manovra si presenta, sotto il profilo macro, come una stangata di proporzioni ragguardevoli: più di 33 miliardi di euro.
Mentre difetta del tutto di misure a sostegno dei redditi (salari e pensioni), essa non riduce e anzi aumenta le tasse e taglia violentemente la spesa pubblica. Il punto è che il ministro Tremonti da un lato ha dissipato molti miliardi di euro per cancellare l’Ici ai benestanti, dall’altro nega che sussista il “tesoretto” fiscale lasciato in eredità dal governo Prodi come retaggio della lotta all’evasione fiscale, lotta quest’ultima che viene smontata pezzo per pezzo, dall’abolizione dei vincoli di tracciabilità alle misure di favore per i professionisti alla riduzione delle sanzioni. Il quadro macroeconomico internazionale – che volge verso il peggio, con la crisi dei mercati finanziari che non scema e investe ormai l’economia reale su cui grava il galoppante incremento dei prezzi del petrolio – dal governo in carica è solo evocato in qualche trasferta all’estero.
Nella manovra sembra non esserci alcuna consapevolezza di quello che sta avvenendo nel mondo, prova ne siano i tagli draconiani alla spesa pubblica. Non a quella corrente, solo marginalmente toccata, ma a quella delle amministrazioni centrali (-14,5 miliardi nel triennio), a quella per trasferimenti agli enti locali (-9,2 miliardi nel triennio), a quella sanitaria (-7 miliardi nel triennio), a quella per investimenti in conto capitale (-3 milardi per il solo 2009), Si possono ben immaginare le implicazioni di tutto ciò da una parte sulla crescita del PIL (che infatti tende allo zero), dall’altra sulla qualità della vita dei cittadini, per i quali i tagli agli enti locali si tradurranno in minori servizi come mense nelle scuole, asili nido, trasporti pubblici, assistenza agli anziani non autosufficienti.
Le conseguenze saranno rilevanti in particolare per scuola e per sanità, dove avanzano velleità di privatizzazione strisciante. Bisogna inoltre considerare lo stravolgimento e l’annullamento delle politiche per Mezzogiorno, per non dire del trattamento riservato alle Università, alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica, avviate verso un’esplicita/implicita privatizzazione, abbandonate al definanziamento, all’assenza di reclutamento dei giovani e al blocco dei concorsi.
In questo quadro si inserisce la social card (33 euro al mese, per un costo per la finanza pubblica di 500 milioni), la quale si rivolgerà a una platea di 1,2 milioni di beneficiari, mentre la “quattordicesima” istituita dal governo Prodi si rivolge a oltre 3 milioni di pensionati, offrendo loro un beneficio fino a 504 euro l’anno. A finanziare i modesti 500 milioni di euro della social card provvederà un Fondo speciale di solidarietà, alimentato in minima parte (200 milioni di euro, il 10% del gettito atteso) dai 5 miliardi di maggiori entrate che frutterà la cosiddetta (del tutto impropriamente) Robin Tax.
La congiunzione di provvedimenti pro business (come quello per la costruzione del ponte di Messina e il rilancio del nucleare) e di una misura caritatevole quale la carta prepagata, rende ragione di una identificazione del segno della manovra di finanza pubblica in un decisionismo autoritario con cascami compassionevoli.
In tale decisionismo, mentre né l’alimentazione della competitività né il sostegno dei redditi e dei consumi appaiono le opzioni scelte e perseguite, avanzano, però, le conseguenze di una fortissima insofferenza verso tutte le regole e l’alterazione strutturale di gran parte del tessuto istituzionale della repubblica italiana. Lo stravolgimento del welfare state è destinato a fare da apripista di un più generale stravolgimento istituzionale. Del resto, la carta prepagata non si presenta da sola ma accompagnata da una speciale enfasi da una parte sull’assegno “caritatevole” di 200 milioni di euro che l’ENI viene indotto a versare a sua alimentazione, dall’altra su altre misure filantropiche – come il 5 per mille – e su strumenti welfaristici “fai da te”, quali gli incentivi per volontariato, associazionismo, comunitarismo.
Sono queste, dunque, le opzioni nuove: il privato in luogo del pubblico, il paternalismo al posto della solidarietà, una mancia invece del welfare.
L’Unità, 18 luglio 2008